A Marlon Brando, ballerino di tango all’inferno

Nel 2013, la scrittrice Joyce Carol Oates indirizzò una lettera aperta a Marlon Brando, un attore che ha incarnato la tragedia del divismo assoluto.

Anniversari , di
A Marlon Brando, ballerino di tango all’inferno

Marlon Brando, divo autodistruttore

Attore, regista, sceneggiatore, icona e sex symbol: Marlon Brando ha segnato indelebilmente la storia del cinema e del costume.
Divo in conflitto con la propria leggenda, esaltata da una prepotente bellezza giovanile, Brando ha incarnato la ribellione e le lacerazioni dei personaggi interpretati.
Nella filmografia di Marlon Brando, lunga cinquant’anni, a fasi di successo indiscusso, si sono alternati momenti di pressoché totale oblio.

Joyce Carol Oates e Marlon Brando

All’inizio del 2013, la scrittrice statunitense Joyce Carol Oates, pluricandidata al Premio Pulitzer, ha omaggiato Marlon Brando in maniera originale, attraverso una lettera aperta, To Marlon Brando in Hell.

Appassionata, innamorata, offesa, addolorata dall’evidente abbandono fisico in cui Brando era precipitato fino a raggiungere forme elefantiache e per il fatto di aver lasciato anche questo ricordo di sé, la Oates dipinge un ritratto struggente, quasi epico, di un uomo che non è mai stato in grado di coniugare la propria figura pubblica con la sua intimità.
NientePopcorn.it vi offre il tributo di Joyce Carol Oates a Marlon Brando in una nostra libera traduzione. Qui, potete trovare il testo originale.

Per Marlon Brando all’inferno

di Joyce Carol Oates.

Perché hai soffocato la tua bellezza nel grasso.
Perché hai preso in giro la nostra adorazione.
Perché tu eri il maschio predatore, quello senza rimorsi.
Perché eri il più grande dei nostri attori e hai buttato via la grandezza come spazzatura.
Perché non riuscivi a prendere sul serio ciò che gli altri consideravano come la propria vita.
Perché, facendo così, ti sei fatto beffe della nostra vita. Perché sei morto avvolto nel grasso. E, già allora, avevi vissuto troppo.
Perché ti detestavi, e ti sei reso detestabile.
Perché il paraplegico sulla sedia a rotelle in UOMINI-IL MIO CORPO TI APPARTIENE era nato per soffocare nel grasso di Kurtz.
Perché il tuo amore è stato seminato con noncuranza, come rottami gettati da una macchina in corsa. E perché hai amato uomini e donne, ma non abbastanza.

Perché il lento suicidio [che nasce] dal disprezzo di sé è orribile, e affascinante, per noi, come è affascinante la trasformazione della tragedia in farsa, come la mostruosità della bellezza che si corrompe.

Perché, nel 1953, hai spinto una ragazza di 15 anni a mentire ai propri genitori in un invernale giorno di scuola di dicembre.
Perché hai costretto questa ragazza a mentire sul dove doveva andare, su quello che doveva fare, il gesto più spericolato della sua giovane vita.
Perché hai convinto questa ragazza a prendere un autobus Greyhound da Williamsville, stato di New York, fino a Buffalo, stato di New York, da sola, nel buio dell’inverno, lei che non era mai stata sola fino a quel momento.
Perché hai indotto questa ragazza tremante e audace a salire sul bus davanti al liceo di Williamsville alle 4:55 del pomeriggio per finire a 12 miglia di distanza in uno squallido cinema di seconda visione su Main Street, per una proiezione de IL SELVAGGIO alle 6 — un posto che le sarebbe stato proibito, se solo i suoi genitori lo avessero saputo. Che cosa sarebbe successo! — per caso, non accadde nulla.
Perché dentro al cinema su Main Street c’erano file di poltrone semivuote nel buio, odori mescolati di popcorn stantio e fumo di sigaretta (era un’epoca in cui era ancora possibile “fumare in galleria”) e sullo schermo la figura “Johnny” stupenda ed esaltante: giubbotto di pelle nera, occhiali scuri, che in sella alla sua motocicletta trasuda l’imbronciato potere del giovane maschio predatore.
Perché quando ti hanno chiesto contro cosa ti ribellavi, hai risposto con splendido sdegno: Contro di voi.
Perché anche noi avremmo voluto rispondere così, ma non avevamo parole del genere da pronunciare.

Perché come Johnny ci facevi viaggiare su una moto da fuorilegge, noi ci aggrappavamo al tuo corpo come in un sonno infantile.
Perché come Johnny eri il volto del pericolo ed eri incorreggibile.
Perché come Johnny non sapevi dire “Grazie”.
Perché come Johnny alla fine ci hai abbandonato.
Perché su quella moto sei diventato sempre più piccolo su quella strada fuori da una piccola città, e sei svanito.
Perché sei sparito. Perché eri in bella vista e sei scomparso.
Perché l’incoscienza dell’adolescenza è euforia, il cuore è pieno fino a scoppiare.
Perché l’incoscienza è l’indicatore della disperazione, ed è prossimo alla vergogna, eppure non è né l’uno né l’altro, ed è maggiore della somma di entranbi.
Perché, nel corso della sua vita, quella ragazza ricorderà che sei entrato nella sua esistenza come la luce del sole che illumina un paesaggio a torto creduto spoglio di bellezza.
Perché c’è un piacere selvaggio nella perdita e nel desiderio della perdita.

Perché quando avevi 23 anni hai fatto deragliare UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO su Broadway e hai fatto della tragedia di Blanche DuBois il primo dei tuoi trionfi. Di Stanley Kowalski così insolenti, dopo, non ce ne sono stati più.
Perché dopo Brando, tutti gli altri sono repliche fallite.
La risata sonora, bestiale e cruda di un maschio polacco, l’umiliazione di una donna del Sud il cui stupro è solo un altro scherzo.

Perché eri uno stupratore provetto, dotato di una spavalderia capace di mettere in atto le peggiori brutalità.

Perché eri Terry Malloy; riempivi lo schermo con quel viso da ragazzo malconcio.
Perché la dolcezza e il dolore erano riassunti in quel viso.
Perché hai raccolto il guanto fatto cadere da Eva Marie Saint e te lo sei infilato, hai tenuto in pugno quella bionda cattolica come se fosse un guanto.

Perché nello struggimento hai mostrato la tua anima — Avrei potuto essere qualcuno! — sapendo quanto la sconfitta, il fallimento e l’ignominia sarebbero stati il tuo destino.

Perché nel 1955, all’età di 31 anni, dopo l’Oscar vinto per FRONTE DEL PORTO, sei stato intervistato da Edward R. Murrow avvolto dal fumo di sigaretta come in un sudario, e nella tua casa in affitto piena di stucchi sulle colline sopra Los Angeles parlavi già dello sforzo di essere “normale”.
Perché hai sopportato le domande noiose dell’intervistatore: “Hai scoperto che il successo può avere i suoi problemi?”, “Hai in programma una lunga carriera come attore?”.
Perché hai ammesso: “Non so fare nient’altro bene”.
Perché hai detto che avresti voluto cantare e ballare sullo schermo, che avresti voluto essere “superficiale”, che avresti voluto “divertire”.
Perché su una mensola della tua casa in affitto c’era il ritratto di tua madre a 40 anni, una madre alcolizzata che non ti aveva amato abbastanza.

Perché il tuo disagio durante l’intervista era evidente.
Perché parlavi del timore di perdere “l’anonimato” quando “l’anonimato” era già andato perso.
Perché l’intervista già di per sé goffa si è conclusa con te che suonavi il bongo con un altro batterista, nel seminterrato decorato in modo bizzarro di quella casa in affitto. Perché le tue mani hanno colpito i tamburi con una sorta di precisione maniacale, i tuoi occhi erano socchiusi, una sciocca felicità ha addolcito il tuo viso.
Perché in quel momento non era (ancora) troppo tardi.

Perché la tua bellezza ti ha sedotto e ti ha trasformato in un buffone.
Perché il buffone va sempre oltre, questa è la sua essenza.
Perché essendo un buffone, spargevi morte come se fosse seme.
Perché tutto quel che avevi, lo hai dovuto sprecare.
Perché hai tentato, come Paul Muni, di eclissarti nei film.
Perché sei stato Marco Antonio, Sky Masterson, Zapata, Fletcher Christian, Napoleone! Eri il fuorilegge travestito e clownesco de I DUE VOLTI DELLA VENDETTA — un fiasco che hai girato tu stesso. Eri Vito Corleone ed eri quel grasso, calvo e garrulo di Kurtz in APOCALYPSE NOW , che mormora e balbetta nel buio, gonfio di pazzia americana.

Perché come il vedovo Paul di ULTIMO TANGO A PARIGI, hai rivelato la tua anima malata, splendida nella sua devastazione. Perché eri stordito dal terrore dell’annientamento, eppure hai fatto il pagliaccio, scoprendo le natiche su una pista da ballo di Parigi.

Perché istupidito dal cadavere di una moglie bellissima incorniciata da fiori grotteschi riuscivi a malapena a parlare, finché non hai parlato troppo. Perché eri intontito dal dolore. Perché non riuscivi a perdonare.

La futilità della sessualità maschile, un baluardo contro la morte.
La farsa della sessualità maschile, un baluardo contro la morte.

Perché nonostante l’ebbrezza hai ballato con grazia imprevista, con una ragazza giovane come una figlia. Sulla pista del tango volteggiavi, sei caduto in ginocchio, ti sei tolto il cappotto, indossavi una camicia e una cravatta a modo per nascondere l’ubriachezza e la disperazione, ti sei sdraiato sul pavimento tra ballerini ignari e a un tratto, contro ogni aspettativa, eri di nuovo in piedi e ballavi…

Eri così agile e luminoso in quella parodia alcolica del tango, un clown che si prende gioco delle emozioni esasperate e della tensione sessuale del ballo — perché come avevi detto da ragazzo volevi essere “superficiale”, volevi “intrattenere”. E poi ti sei abbassato i pantaloni e hai scoperto le natiche con l’euforia che nasce dal disprezzo.
Perché l’attore non esiste, se non è al centro dell’attenzione. Perché il cuore dell’attore è un vuoto che non può essere riempito da nessun complimento.

Perché dopo quel tango demenziale sei rimasto sdraiato, piegato dalla stanchezza e nel silenzio del dolore, un cadavere fetale su un balcone nella luce livida di Parigi.

All’inferno, si balla il tango. I ballerini danzano.

Perché hai fatto un vezzo artistico del disprezzo nei tuoi confronti.
Perché quel che c’era di buono in te, la tua coscienza sociale, la tua generosità per le cause progressiste, è stato ingoiato dal resto.
Perché ti sei svenduto in una serie di film stupidi, per sfidare il tuo talento e ciò che ci aspettavamo da questo talento.
Perché, raggiunta la mezza età, avevi vissuto già troppo a lungo.

Dove c’è stato così tanto amore, non può esserci perdono.

Perché a 80 anni avevi sopportato tutto e avevi iniziato a marcire dall’interno, come un gigantesco albero soffocato dai propri cerchi.
Perché quando sei morto, abbiamo capito che eri morto da tempo.
Perché non potevamo perdonare colui che aveva sperperato la grandezza.

Perché ci hai lasciati. E siamo soli.
E ti raggiungeremmo all’inferno, se solo tu ci volessi.

3 commenti

  1. laschizzacervelli / 18 Novembre 2014

    Grazie ragazzi, non conoscevo questo splendido omaggio a Brando e non ho ancora mai letto nulla della Oates, ma a questo punto provvederò senz’altro!

    • Stefania / 18 Novembre 2014

      @laschizzacervelli: della Oates (autrice quantomai prolifica e, tra l’altro, mal sopportata da Capote, pare), ho letto Una famiglia americana http://amzn.to/1yQ6Do6
      A me non piacque molto (l’ho trovata una lettura estenuante: dolorosa, troppo dettagliata… faticosa, ecco), ma in futuro vorrei darle almeno un’altra chance.
      Questa lettera aperta, invece, mi è piaciuta davvero molto, per questo, dopo averla letta, ho voluto condividerla 🙂

  2. Nadja / 31 Agosto 2020

    Bellissimo omaggio al (forse) il più grande attore di sempre. In queste parole sembra racchiusa tutta la dolorosa esistenza di Brando. Veramente un bellissimo omaggio. Pur essendo morto Brano quando avevo 8 anni, mi stringe il cuore vederlo film dopo film ingrassare e poi scegliere copioni poco riusciti. Come ha detto anche Bertolucci non c’è stato nessuno come Brando prima di lui , e non c’è nessuno come lui ora. Un magnetismo e mito che ha cambiato generazioni, e forse per questo è stato schiacciato. Lettera stupenda, grazie per averla messa.

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