Bergman e Antonioni: il sogno e la realtà

Il 30 luglio 2007, se ne andavano quasi contemporaneamente due grandi nomi del cinema del Novecento. Pur avendo narrato entrambi l'incomunicabilità dell'uomo, le filosofie cinematografiche di Bergman e Antonioni sono profondamente diverse. Alcune riflessioni in merito.

Anniversari , di
Bergman e Antonioni: il sogno e la realtà

La morte di Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni

Il 30 luglio 2007, morivano Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni.
Bergman si è spento a 89 anni appena compiuti nella sua casa sull’isola di Fårö, l’amato rifugio dove aveva imbastito la sceneggiatura di PERSONA e girato il film COME IN UNO SPECCHIO (1961). Antonioni se n’è andato poche ore dopo, quasi novantaquattrenne, nella sua città d’adozione, Roma.

Bergman e Antonioni: la netta distanza

C’è una strana ironia, in queste morti pressoché contemporanee, un postumo e non richiesto punto di contatto fra due artisti molto distanti fra loro.
Bergman e Antonioni erano accomunati dalla rappresentazione del tema dell’incomunicabilità espresso attraverso l’uso di grandi silenzi e della dialettica naturale ma esacerbata tra donne e uomini.
Entrambi erano dichiaratamente atei e provenivano da contesti borghesi.
Eppure, due fra i più atipici e rappresentativi registi del Novecento non si sono mai avvicinati.
In realtà, perché avrebbero dovuto? Bergman non si è mai espresso benevolmente nei confronti del collega, arrivando a definire noiose le sue opere, ad eccezione di BLOW-UP (1966) e LA NOTTE (1961). Dal canto suo, Antonioni non pare aver mai espresso alcun giudizio pubblico sul cinema di Bergman.

Percorrendo sentieri diversi, il regista svedese e quello italiano hanno sezionato e mostrato senza filtri la complessità dell’animo umano, usando codici e sistemi di rappresentazione assolutamente personali, innovativi e irriproducibili. Il loro contributo all’evoluzione (e, nel loro caso, alla cristallizzazione) del linguaggio e dei contenuti della Settima Arte è incontrovertibile.
In questa sede, senza alcuna pretesa di voler esaurire in poche righe il valore e i soggetti delle loro filmografie, proviamo a stimolare l’analisi e la riflessione sull’argomento.

Bergman: il sogno come dimensione vitale

Bergman sul set di "Sussurri e grida"

Bergman sul set di “Sussurri e grida”

La filmografia di Bergman è un’emanazione diretta dell’algido eppure appassionato tormento che agita la tradizione culturale del Nord Europa, nonché l’animo stesso del cineasta, inquieto fin dall’infanzia.
Segnati da un certo simbolismo onirico (LA FONTANA DELLA VERGINE, 1960; IL SETTIMO SIGILLO, 1957), i film di Bergman sono fisici, si basano su scontri laceranti fra uomini e donne (SCENE DA UN MATRIMONIO, 1974), fra passato e presente (IL POSTO DELLE FRAGOLE, 1957), fra realtà e immaginazione (PERSONA, 1966; L’ORA DEL LUPO, 1968).
Proprio il passato e l’interpretazione di fatti accaduti in momenti temporali lontani sono una costante dei suoi lavori (FANNY E ALEXANDER, 1983; SUSSURRI E GRIDA, 1972). Non è raro che i film di Bergman attingano a vicende biografiche. La loro trasfigurazione all’interno della messinscena filmica è la ricerca di un’altra vita, un’alternativa a ciò che è stato vissuto o che si sta vivendo. Bergman concepiva il cinema come specchio, inteso non solo come strumento -letterale- di riflessione, ma anche come porta su un altro mondo, un altro sé illusorio.

La lucidissima autobiografia Lanterna magica, pubblicata nel 1987, spiega molto della personalità di Bergman, in cui hanno convissuto sentimenti totalizzanti e struggenti, come l’amore per la madre bellissima, fragile e distante. Si tratta di un testo che stupisce per la capacità di Bergman di raccontare la propria vita in prima persona, usando un distacco analitico. Approfittando della maschera fornita dal mezzo letterario, dramatis persona, Bergman ha concepito la sua autobiografia come una sceneggiatura incentrata sulle fratture e sui dualismi che tipizzano i protagonisti del suo cinema. Qui, però, invece di Max Von Sydow, Bibi Andersson e Liv Ullmann (le due attrici furono anche sue compagne di vita), recitano proprio quei “fantasmi della memoria” che attraversano tutti i suoi film.
“Vivo sempre nella mia infanzia. Giro negli appartamenti in penombra, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi. In verità, abito sempre nel mio sogno e di tanto in tanto faccio visita alla realtà, scrisse Bergman.

Antonioni: il realismo e l’assenza

Antonioni durante le riprese di "Zabriskie Point"

Antonioni durante le riprese di “Zabriskie Point”

L’uno immerso nell’atmosfera mai completamente definibile del sogno, l’altro profondamente realista. Tanto basta per allontanare il cinema di Bergman da quello di Antonioni.
La celebrazione del ricordo è praticamente assente dalla filmografia di Antonioni e dalla sua vicenda personale: “Non mi volto mai indietro e mi guardo appena nello specchio quando mi faccio la barba. Non mi piace che si sappia tutto di me. Quello che conta sono i film”, disse in diverse interviste.
Non a caso, Antonioni è stato il narratore dell’assenza, un uomo la cui grande statura intellettuale riversatasi con impeccabili ed eleganti risultati estetici e figurativi nel cinema è stata spesso interpretata come seriosità, mancanza di ironia, ricerca di una forzata complessità atta a raccontare in maniera quasi cronachistica la decadenza borghese.
In realtà, Antonioni è stato un “profondo analista dei sentimenti dell’uomo moderno”, come l’ha definito Aldo Tassone in un ricco saggio fotografico (I film di Michelangelo Antonioni). Quello di Antonioni è un uomo inteso come un personaggio-tipo alle prese con situazioni drammaticamente deboli, sicuramente meno tragiche degli orrori bellici e del Dopoguerra (vedi De Sica e Rossellini), ma tipiche della società contemporanea. Su tutte, si staglia imperiosa “la malattia dei sentimenti”.

Sulla questione, aperta con CRONACA DI UN AMORE (1950) e chiusa con IL DESERTO ROSSO (1964), il suo primo film a colori e forse la sua opera più personale, lo stesso Antonioni ebbe a dire: “I sentimenti sono delle cose talmente fragili che si ammalano facilmente. Come gli esseri umani”.
Attraverso l’analisi acuta delle fasi della passione amorosa, in una concezione tragica dell’amore e dell’esistenza, il cinema di Antonioni fa coincidere il tracollo emotivo dei suoi personaggi con una loro disumanizzazione che, però, non si inserisce in una esplicita critica alla società borghese.
Agendo dal suo interno, Antonioni è stato testimone imparziale di un mondo che, però, non ha giudicato, né denunciato. Egli non ha fatto altro che rappresentarlo, in tutta la sua enigmaticità e con i rischi del caso.
In questo senso, è emblematico il fatto che, dopo aver collaborato con Rossellini (UN PILOTA RITORNA, 1942) e -in maniera disastrosa- con Marcel Carné (LES VISITEURS DU SOIR, 1942), la sua carriera come regista sia iniziata (e si sia conclusa) con alcuni documentari (GENTE DEL PO, 1947; N.U., 1948; LO SGUARDO DI MICHELANGELO, 2004).
Lontano dal Neorealismo ma estremamente realista, con la sua passione per la pittura e l’astrazione, per la sottrazione e l’essenzialità estetica, Antonioni sembra non aver avuto “altri maestri che i suoi occhi”. Per citare Robert Bresson, il cinema di Antonioni non si impone allo spettatore, ma produce l’emozione attraverso “una resistenza all’emozione”.
Michelangelo, nomen omen, è stato quasi più pittore che cineasta, affiancato alla fotografia di alcuni dei suoi lavori più noti da un altro grande osservatore ed esteta come Carlo Di Palma. Nei suoi lavori di sceneggiatura, Antonioni tendeva a trascurare gli scambi verbali fra i personaggi, prediligendo la parte figurativa del racconto, facendo propria la mancanza di dialogo e quasi prefigurando l’handicap del mutismo che l’avrebbe afflitto dopo l’ictus occorsogli nel 1985.
Il cineasta ferrarese “si è spinto -non solo geograficamente- in zone inesplorate: la conoscenza della realtà, il problema dell’identità (PROFESSIONE: REPORTER, 1975), il rapporto uomo-natura, l’elettronica (IL MISTERO DI OBERWALD, 1981)”, la degradazione del mondo (ZABRISKIE POINT, 1970).
Tutto ciò, tenendo sempre gli occhi aperti.

[Nella foto principale: di spalle, Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau in una sequenza de LA NOTTE di Antonioni]

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