ANDREJ RUBLËV (1966) di Andrej Tarkovskij

andrei-rublev Andrej Tarkovskij inizia a lavorare ad Andrej Rublëv nella prima metà degli anni Sessanta: a causa delle restrizioni censorie, viene conosciuto dal vasto pubblico solo una decina di anni dopo, quando viene distribuito in un arco di tempo che va dal 1970 al 1975. La fama del regista, affermatasi all’estero con L’infanzia di Ivan (1962), protegge il film da recensioni “preventive”, reticenze ed invidie, ma l’attenzione dedicatagli inizialmente in patria è quasi inesistente, la pellicola viene commentata in maniera “dialettica” [1], secondo il modello imposto dalla “politica del disgelo” come innovazione nella politica culturale.
Prima di iniziare le riprese del film, Tarkovskij aveva immaginato il proprio lavoro in forma letteraria, cioè come “racconto solo parzialmente impostato con la finalità dello schermo. Il testo (…) non ha perciò la struttura tipica del copione: è un romanzo vero e proprio, punteggiato di eccessi visivi” [1]. Tarkovskij “vuole guardare un’opera finita nel suo tempo con gli occhi di oggi. (…) Propone l’opera di Rublev avendo cura (…) di restare fedele sia alla storia evocata che al proprio linguaggio: il film non riproduce né ricrea, ma diventa pittura” [1]. “Il problema del posto occupato dall’artista nella vita del popolo si presenta come il problema più moderno, più attuale, più importante che sta a cavallo fra l’epoca contemporanea e il domani” [2], dichiara il regista.
Tarkovskij ha ribadito spesso il proprio debito estetico e formale nei confronti di Robert Bresson: la figura dell’asino Balthazar, per esempio, riecheggia in alcuni brani del Rublev [1], in particolare nel rapporto uomo-animale-natura, ed il regista afferma: “Quando lavoro, mi aiuta molto pensare a Bresson. Solo il pensiero di Bresson. Non ricordo nessuna delle sue opere in concreto, ricordo solo la sua maniera supremamente ascetica, la sua semplicità e la sua chiarezza” [3].
Il rapporto dell’autore con la religione e con la religiosità (una sorta di fideismo religioso [4]) sono fondamentali nella rappresentazione del popolo e della realtà: un “amore per il popolo (…) che riflette gli echi romantici ed evangelici del Tolstoij giovanile (…). Amore in cui batte il tempo di un radicale ottimismo della ragione misto a scoramento per ciò che poteva essere fatto e che i deliri della Storia hanno impedito di portare a compimento. (…) Il rifiuto della Storia come Male che sembra apparentare [Tarkovskij] (…) al decadentismo mistico e al simbolismo religioso del primo Novecento russo, viene in parte recuperato e redento dal suo amore per il popolo inteso come arco di volta di una generale filosofia della vita e dell’arte” [4]. La rappresentazione dell’attrazione verso il pagano, esibita nella scena della festa notturna e nella fuga di una ragazza ignuda da una sponda all’altra di un fiume (simbolo della sopravvivenza di una cultura popolare libera dalle maglie del potere costituito) mostra un unicuum irripetibile nella produzione del regista: “il pagano, da una parte, e il rifiuto del sentimento religioso indotto, dall’altra. In parole diverse, l’opzione in favore di un’ambiguità riconosciuta come essenziale ed irrinunciabile al fare artistico” [1].
Sandro Petraglia definisce Andrej Rublëv un “film dalle molte ambiguità, [che] propone chiavi di lettura spesso divergenti in modo radicale, [che] invita a uno sforzo di ricollegamento del materiale visivo e della struttura narrativa a tutto un filone della cultura russa e del cinema sovietico” [4].

[1] Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Andrej Tarkovskij, ed. Il Castoro Cinema, 1997
[2] Andrej Tarkovskij, È molto importante, in Literaturnaja Gazeta, 1962
[3] Intervista a Panorama, 1979
[4] Sandro Petraglia, Andreij Tarkovskij, ed. A.I.A.C.E., 1975

NOTE BIOGRAFICHE
Andrej Arsen’evič Tarkovskij nasce nel 1932 a Zavroze, figlio di un poeta, e cresce a Peredelkino, un villaggio bohemien situato nei pressi di Mosca.
La sua infanzia è decisamente tranquilla, fino al momento dell’attacco nazista all’Unione Sovietica: all’improvviso, egli scopre la realtà, vedendo le devastazioni e la miseria della guerra.
Ama la musica fin da piccolo, iscrittosi al liceo studia pittura, si interessa di lingua araba e nel 1952 si iscrive all’Istituto di Lingue Orientali. Dietro consiglio della madre, dal 1954 al 1956, si trasferisce in Siberia: lavora come geologo raccoglitore e, avvicinandosi alla Natura, vive l’esperienza in maniera estremamente serena. “Quello che mi ha sempre interessato è, innanzitutto e giustamente, la terra. Sono affascinato dal processo di crescita di quanto viene dalla terra, di ciò che spunta dalla profondità, gli alberi, l’erba (…). In genere amo la terra, non vedo il fango, vedo la terra mescolata all’acqua, il limo da cui nascono le cose” [1].
Tornato a Mosca, Tarkovskij si iscrive alla VGIK, la più rinomata scuola sovietica di cinema: in quattro anni, dopo aver vinto il primo premio al festival dei film per studenti di New York con Non ci saranno foglie stasera (1959), si diploma in regia con il massimo dei voti. Il suo saggio consiste nel cortometraggio Il rullo compressore e il violino (1960), realizzato in collaborazione con il compagno di corso Andrej Mikhalkov-Končalovskij, insieme al quale gira anche L’infanzia di Ivan (1962), pellicola che si aggiudica il Leone d’Oro a Venezia, ex-aequo con Cronaca familiare di Zurlini.
La fama acquisita non evita che il sistema censorio sovietico gli impedisca di ottenere facilmente i finanziamenti per realizzare altri film e, soprattutto, l’autorizzazione alla distribuzione nelle sale. Stalker (1979), per esempio, viene girato solo dopo aver ottenuto una speciale autorizzazione del Presidium del Soviet: l’URSS, poi, gli rifiuta la partecipazione alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Nel 1983, Tarkovskij riesce a trasferirsi temporaneamente in Italia: in collaborazione con Tonino Guerra, scrive e realizza Nostalghia, Gran Premio del Cinema a Cannes, parimerito con L’argent di Bresson. Gli appunti e parte del materiale relativi al film vengono trasmessi dalla RAI con il titolo Tempo di viaggio (1983). Pur rinunciando alla vicinanza della moglie e dei due figli, nel 1984 Tarkovskij si stabilisce definitivamente in Italia, prima a Firenze, poi a Milano, annunciando che non farà mai più ritorno in patria. Il distacco è dolorosissimo: “(…) Non si può uscire dalla propria pelle di Russo, dai legami dal proprio Paese, da quello che amate, da quello che è stato fatto nel passato del vostro cinema e della vostra arte, e dunque, alla fin dei conti, della vostra terra” [1].
Collabora a progetti teatrali internazionali e prepara le bozze di numerosi progetti, rimasti solo sulla carta. Il suo ultimo lavoro cinematografico, Sacrificatio (1986), vince il Premio Speciale della Giuria, a Cannes.
Tarkovskij muore di cancro, a Parigi, negli ultimi giorni del 1986.

[1] Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, ed. Ubulibri, 1988

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A cura di Stefania