Le origini del cinema: da i Fratelli Lumiere al primo cinema narrativo di David W. Griffith

Il cinema delle origini, non essendo preceduto da nulla, è essenzialmente cinema della sperimentazione: mancando una grammatica legislativa e costitutiva del genere, i primi registi utilizzavano una libertà espressiva che rende difficile amalgamare in settori o gruppi più film.

In questo senso, una mappatura del periodo è essenzialmente soggettiva, dunque opinabile.

L’estetica della veduta (1895-1903): i Fratelli Lumière e l’invenzione del reale.

Contrapposto al Modo di Rappresentazione Istituzionale (MRI), il Modo di Rappresentazione Primitivo (MRP) connota un cinema monopuntuale, caratterizzato da una telecamera fissa posizionata frontalmente agli attori e un’illuminazione uniforme. A questo proposito, risulta esemplare la produzione dei Fratelli Lumière.

Queste pellicole di cinquanta secondi ciascuna danno una buona idea di quell’estetica della veduta che farà del loro un cinema cinegiornalistico (Arrivée des congressistes a Neuville-sur-Saône, 1895), dai marcati tratti autopromozionali (Sortie d’usine, 1895) o da reportage (Niagara, 1897), ma anche un cinema della sperimentazione.
In L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat, con la cui programmazione si fa iniziare la storia del cinema (28 dicembre 1895), viene utilizzato il fuoricampo con funzioni narrative, creando così l’illusione che il treno stia uscendo dallo schermo (geniale la parodia che ne fece Neri Parenti ne Le comiche, 1990). In Barque sortant du port (1895), invece, si nota la consapevolezza della modernità del mezzo-cinema e la necessità di inserirlo in un percorso artistico non autonomo: qui, l’inquadratura è una composizione pittorica che calibra alla perfezione dinamismo e staticità, chiaro e scuro, verticale e orizzontale in una dialettica che mira alla spettacolarità guardando all’impressionismo francese.
Infine, Spanish Bullfight (1900) rappresenta uno dei primi tentativi di formalizzare il processo di assorbimento dello spettatore nelle immagini: la macchina da presa venne parzialmente collocata all’interno del fatto narrato/documentato, affinché lo spettatore del reportage potesse adottare il punto di vista di uno spettatore della corrida.

Dall’estetica del tableau (1903-1906) all’estetica dello shock: il caso Méliès.

Nel 1903, fa la sua comparsa un montaggio rudimentale, nonostante il quale l’inquadratura continua a essere concepita come autonoma, sì da fare del montaggio un mezzo paratattico per far comunicare più scene a sé stanti. Campione di quest’estetica è il francese George Méliès, i cui film sono una messa in scena che ha tra i propri antecedenti il teatro parigino dei tableaux vivants.

Attraverso una pur labile linea narrativa volta a coordinare scenette altamente spettacolari che avevano come fine la meraviglia e/o lo shock, il cinema di Méliès da una parte ricostruisce la realtà e dall’altra si pone come invenzione, illusione, sogno: il suo successo non deve dunque sbalordire, perché il bisogno collettivo di fantasticare coincide con un’evidenza storica drammatica. É il caso dei due voyages (1902, 1904), nei quali ricorre il tema prediletto del regista, quello del viaggio, nel quale, però, raramente è ravvisabile una vera e propria progressione del racconto e mai è presente una caratterizzazione psicologica dei personaggi, poiché l’attenzione è posta sul motivo attrattivo, sul meraviglioso, a volte anche con incongruenze logiche a livello narrativo: sarà per questo che alcuni critici vedranno in essi l’antesignano del videoclip musicale (il videoclip di Tonight, tonight degli Smashing Pumpkins, ad esempio, riprende in pieno Voyage à travers l’impossible, 1904).
Sarà questo tipo di cinema che farà di Hollywood quella fabbrica di sogni che tutti conosciamo e non è dunque un caso che Martin Scorsese, col suo Hugo Cabret (2011), abbia deciso di portare sullo schermo l’esperienza del regista francese.
Inventore di illusioni e di altri-mondi fantastici, Meliés è un uomo della sua epoca, e lo dimostrano pellicole come L’Affaire Dreyfus (1899), film a quadri sensibile alle più moderne riflessioni riguardanti l’omonima e drammatica vicenda francese: le pellicole di quegli anni (si veda, a questo proposito, anche Histoire d’un crime di Ferdinand Zecca, 1901) si fanno portatrici di una visione progressista vòlta a legittimare il mezzo-cinema non più solo come strumento d’intrattenimento, ma anche come motivo di approfondimento e discussione e, addirittura, vero e proprio motivo culturale, il cinema d’impegno sociale che verrà pienamente realizzato negli anni della modernità (1955-1975) da registi come Michelangelo Antonioni.
La memorabile scena dell’attentato è legittimata dal contenuto storico, affinché il trauma visivo venga da subito incluso nella proposta visiva del cinema (estetica dello shock), pur stemperato da una morale egalitaria.

I pionieri inglesi e la sistemazione linguistica: da Williamson & Smith a Porter.

Sebbene radicalmente differenti tra loro, le cinematografie di James Williamson e George Albert Smith fanno entrambe delle nascenti tecniche di montaggio il loro perno, sì da sviluppare il processo narrativo in maniera più complessa, non più solo paratattica.

È il caso di The kiss in the Tunnel (1899), nel quale Smith si pone il problema della frammentazione di una stessa scena in più inquadrature, arrivando a sezionarla in tre inquadrature distinte (l’entrata del treno nel tunnel/ l’interno della cabina/ l’uscita del treno), o di Grandma’s reading Glass (1900). Qui, dopo aver mostrato la situazione principale (un bambino che gioca con una lette d’ingrandimento), la telecamera assume il punto di vista della lente d’ingrandimento per mostrare una serie di oggetti: la funzione del primo piano è più attrazionale che narrativa.
Al contrario, attraverso un montaggio realizzato con uno stacco netto e non più in dissolvenza, com’era d’abitudine, Williamson mette in successione più inquadrature per ricreare la continuità dell’azione: in Fire!, ad esempio, questa continuità temporale è anche continuità causale e dà modo al regista di avvicinare due luoghi distanti tra loro. È il 1901, e la macchina da presa di Williamson, entrando in un edificio il cui inquilino ancora non s’è accorto essere in fiamme, mostra già le prime tensioni verso quel modo di rappresentazione istituzionale che segnerà uno scarto rispetto il MRP di cui sopra.
Tutte queste novità stilistiche furono infine sistemate dall’americano Edwin S. Porter, il quale riprese il Fire! di Williamson producendone una sorta di sequel, connotando però psicologicamente il protagonista e, dunque, mostrando già una cesura rispetto al MRP ed avanzando verso il MRI. Nel suo capolavoro, The Great Train Robbery (1903), Porter elabora il montaggio al fine di creare un film costruito sulla contiguità spazio-tempo: alla base di questa pellicola, si nota una volontà di narrazione causale, sebbene il film rimanga ancora ancorato al MRP. Permane l’identità tra inquadratura e scena, a volte con intento più attrazionale che narrativo: a questo proposito, è celebre il bandito che spara in camera, esempio di un primo piano narrativo con funzione attrazionale.

Esempi di cinematografie nazionali.

Il cinema delle origini è un cinema immenso, complesso, sfaccettato e sarebbe quindi pretenzioso schematizzarlo in un’ottica che si rivelerebbe anacronistica e deficitaria. Si è tentato di darne una lettura tecnica, portando alla luce soprattutto le innovazioni linguistiche che verranno poi istituzionalizzate e daranno vita al cinema narrativo che tutti conosciamo.
È ugualmente importante non dimenticare le cinematografie nazionali, le quali già mostrano in germe gli sviluppi moderni e contemporanei che, cinematograficamente, non possono essere tralasciati: in qualità di esempio, sottoponiamo alla vostra attenzione il caso dell’Italia, della Danimarca e della Russia.

Italia, Danimarca e Russia rappresentano i tre grandi poli alternativi alla Francia e all’Inghilterra, tutti e cinque successivamente schiacciati dall’industria cinematografica statunitense (Hollywood), la quale saprà meglio commercializzare ed esportare i propri prodotti.
Lungi dal voler tracciare un’ontologia del mercato cinematografico, ci limiteremo a dire che queste cinematografie hanno assunto caratteri prettamente nazionali, quindi difficilmente esportabili.
È il caso de La presa di Roma (1905) di Filoteo Alberini, che ha l’onere di essere il primo film italiano: dalla storia che racconta – l’unificazione dell’Italia – si può già intravedere quale sarà la piega che prenderà la cinematografia nostrana, che col Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone raggiungerà l’apice di un cinema storico-monumentale d’identità nazionale, eguagliato solamente dallo statunitense D.W. Griffith.
Al contrario, la Danimarca, altra potenza cinematografica, concentra le proprie narrazioni su scenari torbidi e polizieschi, che – così come accade nel cinema svedese – non dimenticano di portare sullo schermo una natura panteistica (il riferimento al nostro contemporaneo Lars von Trier è d’obbligo) che, però, gli svedesi sapranno meglio interpretare come background e personificazione degli atteggiamenti emotivi dei personaggi sulla scena (si veda, per esempio, Berg-Ejvind och hans hustru di Victor Sjöström, 1918).
Tra i titoli danesi, citiamo Det Hemmelighedsfulde (1914) di Benjamin Christensen, le cui ricerche sulla luce, il capolavoro di chiaroscuri e la netta prevalenza di ombre e sagome indistinte costituiscono la cifra stilistica che sarà propria dell’espressionismo tedesco (come non citare, a questo punto, il Nosferatu, 1922, di Friedrich Wilhelm Murnau?).
Attento all’illuminazione fu anche Evgenij Francevič Bauer, russo, di quella Russia che fu madre di teorici registi come Vertov ed Ėjzenštejn. Nei suoi film, orientati verso un gusto borghese con venature decadenti e decadentiste, Bauer portò in risalto i suoi studi su montaggio, illuminazione e profondità di campo, senza dimenticare il profilmico (le scenografie sono tra le più maestose di quegli anni) e, soprattutto, l’attorialità, di cui il regista diede una delle più importanti e rappresentative prove d’importanza antecedenti lo star system.

L’istituzionalizzazione di ciò che è passato: David W. Griffith.

Con Griffith si suole far terminare l’esperienza originaria del cinema, data la sistematizzazione che diede di linguaggi e tecniche finora sperimentati e il definitivo contrappasso verso un cinema d’impianto narrativo. La sua importanza ha investito anche la cultura popolare fino ai giorni nostri, tant’è che nella navicella di WALL•E (2008), dove sono presenti i più diversi materiali, è inserita anche un’immagine tratta da A Corner in Wheat (1909).

Griffith è colui che codifica la grammatica cinematografica e lo fa a seguito di centinaia di cortometraggi attraverso il suo capolavoro, The Birth of a Nation (1915), per il quale furono necessari strumenti in grado di rendere espliciti passaggi narrativi ben più sofisticati di quelli dei film precedenti: si trattava, insomma, di omogeneizzare la frammentarietà, di montare le inquadrature al fine di rendere attivo e coinvolto lo spettatore, il che avviene attraverso il montaggio alternato e il cosiddetto last minute rescue. Il film, però, fu fortemente criticato a causa della sua visione razzista (si veda la scena del Ku Klux Klan che Tarantino dileggerà in Django Unchained, 2012).
Allora, Griffith realizzò Intolerance (1916), affresco sull’intolleranza attraverso i secoli (ripreso da Carl Theodor Dreyer in Blade af Satan’s Bog, 1920) e manifesto rivendicativo della libertà d’espressione dell’artista: in esso, Griffith montò insieme quattro diverse storie cronologicamente differenti, unite l’una alle altre dal leitmotiv del titolo.

Pagina realizzata con il contributo di yorick

13 commenti

  1. DonMax / 2 Aprile 2013

    Interessante lettura.
    Moltissime delle cose da te (o voi ? leggo con il contributo)dette le conoscevo ma altrettante no.
    In ogni caso grazie millle.

    DonMax

  2. Socrates gone mad / 2 Aprile 2013

    Bella questa pagina, immagino sia relativamente recente, o almeno io non l’avevo mai notata prima. Mi sembra riesca a ripercorrere, sinteticamente ma efficacemente, lo sviluppo del cinema dei primordi dalla sua forma didascalica o spettacolare fino alla codificazione di Griffith, che potremmo considerare un po’ il Pietro Bembo della macchina da presa 🙂
    Ripercorrendo i primi tentativi di complessificazione del linguaggio cinematografico è divertente incappare in alcuni “blooper”, come quando il perfezionamento della spazialità non aveva raggiunto quello della consecutio temporum e capita di vedere oggetti che escono da un lato dell’inquadratura per rientrarvi dal lato opposto nell’immagine successiva. Allo stesso modo è interessante osservare le revisioni “in corso d’opera”, per cui inizialmente Fire! prevedeva la riproposizione della stessa sequenza girata prima dall’esterno e poi dell’interno dell’edificio, mentre in seguito il regista rimontò il film con degli stacchi che meglio rendevano la progressione temporale.

  3. verons / 2 Aprile 2013

    Molto interessante!

  4. alex10 / 16 Maggio 2013

    articolo fantastico !! non l’avevo mai visto…
    cene sono altri di questo tipo ??

  5. stefania86 / 9 Luglio 2013

    Interessantissimo. Grazie. 😉

  6. jackreed87 / 7 Agosto 2013

    Bello l’articolo davvero. Sento però quasi l’esigenza di sottolineare il cosiddetto pre cinema. In effetti sono esistite nella storia dalla notte dei tempi rappresentazioni di preistoria del cinema. Potremmo citare in primis : le ombre cinesi o teatro d’ombre diffusissima tecnica praticata in oriente, in Cina , India , Babilonia e nello stesso antico Egitto ecc.
    La lanterna magica creata da Athanasius Kircher e poi perfezionata nel 1736 da un fisico olandese Pieter van Munschenbroeck.
    Nel 1799 il fantascopio detto anche fantasmagorie da un fisico belga con pseudonimo Robertson .
    Nell’Ottocento abbiamo varie invenzioni: il thaumatropio; nel 1833 il fisico belga Plateau brevetta il fenachistoscopio; l’inglese Horner il daedalum, lo zootropio ed il prassinoscopio di Émile Reynaud, nel 1877.
    Fondamentali saranno poi: nel 1837 il primo dagherrotipo di Daguerre, una natura morta che aprì le porte della diffusione della fotografia nel mondo.
    Poi sono da citare: Muybridge fotografo inglese e il francese Marey. Muybridge famoso per i suoi scatti di animali, cavalli in movimento.
    Marey inventò un fucile fotografico che consentiva di riprendere dodici immagini al secondo.
    Thomas Edison fu importante per il kinetografo, per la ripresa, e per il kinetoscopio per la proiezione di immagini in movimento.
    I primi spettacoli popolari nel Cabinet Fantastique a Parigi, avvennero ad opera di Émile Reynaud che creò piccole favole a disegni animati: Pauvre Pierrot, la più celebre, nel 1894 circa.
    Occorre ricordare in Francia due figure: Charles Pathé industriale cinematografico da cui il famoso marchio Pathé nel mondo del cinema. Ferdinand Zecca dirige film ispirati a Zola, su temi sociali, produttore dei film Pathé.
    Tra i primi documentari italiani abbiamo nel 1896: “Il bagni di Diana” di Giuseppe Filippi.
    Nelle cinematografie nazionali bisogna citare a mio avviso dei classici film kolossal e non solo: “Cabiria” del 1914, di Giovanni Pastrone con didascalie di G.d’Annunzio ed il periodo d’oro del cinema nordico europeo pre Dreyer. Il cinema svedese di Victor Sjostrom, regista e famoso attore protagonista de “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman. Fra i film di Sjostrom ricordiamo: “Il carretto fantasma” che ebbe omaggi , citazioni in film di Kubrick . Benjamin Christensen, danese, gira “La stregoneria attraverso i secoli”. Ed infine Mauritz Stiller, finlandese, girò “La saga di Gosta Berling” col debutto come attrice di Greta Garbo, e fece altri film come “Il tesoro di Arne” ecc…

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