CHARLESTON (1927) di Jean Renoir

charleston-lionsGateL’approccio primigenio di Jean Renoir al cinema, al quale corrisponde la prima parte della sua produzione cinematografica, è di tipo naturalista.
“La necessità di dare una struttura realistica agli impianti narrativi, di trasformare il film da un volgare spettacolo sentimentale per consumatori di facili esigenze in qualcosa che esprimesse una propria vitalità espressiva, era fortemente sentita se non da tutti, almeno da una minoranza di giovani cineasti che amavano il cinema e che in esso credevano fermamente come autonoma forma d’arte. Anche [Jean] Renoir aveva colto questa esigenza” [1].
Femmine folli (1921) di Eric Von Stronheim lo folgora, letteralmente, ed egli adotta il film del regista tedesco come modello verso cui tendere. Una delle prime fatiche di Renoir, dopo gli esordi melodrammatici con Catherine ou en vie sans joie (1924) e La fille de l’eau (1924), è, non a caso, l’adattamento di Nana (1926), un romanzo di Émile Zola: la vicenda gli da la possibilità di offrire al pubblico una trama propriamente detta e, contemporaneamente, il ritratto di una società storicamente definita e caratterizzata. Purtroppo, il film “fu un fiasco colossale” [1]: Renoir vi aveva investito ingenti somme di denaro, uscendone economicamente rovinato.
Accetta, perciò, di realizzare pellicole che, in diverse condizioni, non avrebbe girato. A questo periodo, corrisponde il cortometraggio Charleston (1927), noto anche con i titoli di Sur un air de Charleston e Charleston Parade: la versione giunta fino a noi è, purtroppo, quella di risulta, ridotta a soli venti minuti di proiezione, ed è, comunque, incompiuta, poiché differisce sostanzialmente dallo script originale. Anche l’accompagnamento musicale originale di impronta jazzistica di Clement Doucet, che pare fosse particolarmente bello, è andato perduto.
Charleston è un divertissement con ambientazione fantastica basato su una struttura narrativa surrealista: gli attori principali sono Catherine Hessing, moglie e musa di Renoir, e Johnny Higgins, un ballerino afroamericano di tip tap allora molto noto, proveniente da New York. Benché realizzato per necessità, il cortometraggio contiene alcune delle costanti renoiriane a cui il regista non ha saputo né inteso rinunciare, come il senso del favoloso e dello spettacolo e, soprattutto, il gusto di vivere, sottolineato dalle danze sfrenate e dalla giocosa libertà del tema che, a dispetto dell’ambientazione sci-fi, affronta delicati temi sociali, come quello del razzismo.
A conti fatti, Charleston è “un ammirato documentario sul corpo e sui gesti di Catherine Hessling […]. Renoir si sofferma su di lei rallentando l’immagine, esplorandone i movimenti, rovesciando la sua prospettiva: passando cioè dall’occhio della regia a quello spettatoriale, il regista compie un movimento che riporterà lungo tutto il suo cinema, quello di non nascondere il set, la sua atmosfera, i suoi desideri, le sue passioni e, soprattutto, i suoi corpi” [2]. L’amore per la fisicità umana viene a Jean dall’influsso pittorico paterno: egli, infatti, “ha assorbito un gusto genuino e sensuale della vita che il padre esprimeva attraverso la natura lussureggiante, le cosce e le braccia procaci e robuste delle bagnanti nude dei suoi quadri, quelle bocche carnose e ironicamente ammiccanti delle sue predilette figure femminili” [1].

[1] Carlo Felice Venegoni, Jean Renoir , ed. La Nuova Italia, 1975
[2] Daniele Dottorini, Jean Renoir. L’inquietudine del reale, ed. Fondazione Ente dello Spettacolo, 2007

NOTE BIOGRAFICHE
Jean Renoir nasce a Parigi, nel quartiere di Montmartre, nel settembre del 1894, da Pierre-Auguste, il noto pittore impressionista, e da una modella di origine contadina. Dal padre, assorbe “il gusto per i valori figurativi –anzi pittorici- della realtà (…) e anche un gusto genuino e sensuale della vita” [1]. L’essere figlio (il terzo) di casa Renoir gli da l’opportunità di conoscere alcuni tra i più accreditati rappresentanti culturali della Francia del tempo e di entrare in contatto con una società borghese ancora a cavallo tra due secoli. “L’influenza di mio padre su di me è innegabile, ma essa si manifesta soprattutto nei piccoli dettagli della vita quotidiana. (…) Malgrado il desiderio di non influenzare i figli, mio padre ci influenzava eccome, per il tramite dei suoi quadri che ricoprivano i muri della nostra casa. Inconsciamente ci eravamo abituati a considerare la sua pittura come la sola pittura possibile” [2].
Jean è studente incostante, di scarso profitto sia negli studi di filosofia che in quelli di matematica e, nel 1912, si arruola. La guerra in Alsazia lo vede ferito ad una gamba: rimarrà zoppo per tutta la vita. Nel 1920, sposa Madeleine, poi Catherine, Hessling, una delle ultime modelle del padre pittore e interprete di molti dei suoi lavori cinematografici iniziali: “I miei primi film sono, secondo me, di scarsissimo interesse. Non hanno valore altro che per l’interpretazione di Catherine Hessling, che era un’attrice fantastica” [3].
La visione di Femmine folli (1921) di Von Stronheim lo colpisce profondamente e gli instilla il desiderio di dare forma ad un’estetica cinematografica nuova.
Gli esordi in veste di sceneggiatore e poi di regista sono certamente favoriti dal vivace ambiente culturale entro cui vive che, oltre a fornirgli un riparo contro le incertezze del mestiere, gli offre un humus ispirativo a cui attingere: “limitando provvisoriamente l’analisi ai film muti, l’ascendenza [paterna] ha un’importanza nel definire (…) la sua ricerca formale nel campo delle immagini. In tal senso può essere considerata emblematica la figura della Hessling in Nana (…). A quei tempi, le dive erano abituate alle pose fatali, ma qui la ricerca formale raggiunge un risultato più alto (…). Il rigore stilistico nella ricerca degli elementi figurativi e nella composizione dell’inquadratura [fa] sì che questa sia il risultato naturale di una realtà artisticamente interpretata che vive al di là dell’immagine contingente e al tempo stesso la giustifica” [1].
La filmografia di Renoir consta di trentotto titoli e può essere suddivisa in quattro sezioni principali [1]: film muti (1924-1929), film dell’anteguerra (1931-1939), film americani (1941-1946), ultimo periodo (1950-1969). Detta scansione è frutto di cesure dettate più da fatti contingenti alla biografia del regista che ad una sua effettiva scelta stilistica: l’avvento del sonoro, l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, il soggiorno americano forzoso, il ritorno in Europa.
La collaborazione con Jacques Prévert e Roger Blin e la frequentazione del Fronte Popolare, convergono in una produzione smaccatamente politica. A questo periodo risale La grande illusione (1937): inviso al governo tedesco, viene messo all’indice ed ha avuto grosse difficoltà distributive. Nel 1941, Renoir viene esiliato negli Stati Uniti e prende la cittadinanza americana: lavora (malvolentieri) a Hollywood e, nel 1940, sposa l’attrice brasiliana Dido Freire, ma la mancata registrazione dell’annullamento del matrimonio con la Hessling, andato definitivamente in frantumi dieci anni prima, potrebbe causargli una condanna per bigamia e ritarda il suo rientro in Francia. Tornato dall’America, Renoir trova l’Europa ed il cinema europei cambiati: “le strutture produttive e commerciali si erano irrobustite, c’era meno spazio per la genialità improvvisatrice. Il mezzo si era consolidato, diventando uno strumento espressivo generalizzato (…) La televisione era in agguato” [1]. Egli abbandona gradualmente il mondo del cinema, e, tra il 1969 e il 1971, realizza un programma televisivo, Il teatrino di Jean Renoir. Contemporaneamente, si impegna nella letteratura e nella raccolta dei propri articoli giornalistici dedicati al cinema. Nel 1975, gli viene consegnato un Oscar onorario alla carriera con la seguente motivazione: “Un genio che con grazia, responsabilità e invidiabile devozione attraverso film muti, sonori, di genere, documentari e televisione, ha guadagnato l’ammirazione mondiale” [4]. Il regista François Truffaut, che provava per Renoir una considerazione ed un rispetto pari a quelli sentiti per Alfred Hitchcock, lo ha definito “l’unico regista praticamente infallibile, incapace di sbagliare un film. E credo che egli non abbia mai commesso un errore, perché ha sempre fondato le proprie scelte sulla semplicità” [5].
Tornato in California nel 1970, Jean Renoir muore a Beverly Hills, nel 1979. Dopo avergli concesso un funerale di Stato, il suo corpo è stato tumulato nella regione francese della Champagne-Ardenne, ad Essoyes, il villaggio dove riposa anche il padre.

[1] Carlo Felice Venegoni, Jean Renoir, ed. La Nuova Italia, 1975
[2] Jean Renoir, Ma vie et mes films, ed. Flammarion, 1974
[3] Le Point, 1938
[4] Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Oscar_onorario#1970
[5] Bert Cardullo, Alter Ego, Autobiography, and Auteurism: François Truffaut’s Last Interview, 1984

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A cura di Stefania