Recensione su Il vangelo secondo Matteo

/ 19648.094 voti

di pier paolo pasolini / 19 Maggio 2019 in Il vangelo secondo Matteo

matteoIl Vangelo secondo Matteo viene letteralmente preannunciato da La ricotta, l’episodio di Ro.Go.Pa.G. (1963) diretto da Pier Paolo Pasolini.
Devono trascorrere due anni da quel lavoro, prima che Pasolini si senta pronto per affrontare la materia: il Vangelo trova giustificazione in una “dimensione interna all’autobiografia poetica e culturale dell’autore” [1], entro cui affiora il suo dibattito interiore, in cui si contrappongono la componente evangelica celebrata fin dai tempi delle elegie giovanili (Poesie a Casarsa, 1942) e la tormentata consapevolezza che “la chiesa del (suo) adolescente amore” [2] era stata tragicamente sostituita dalla certezza che “la Chiesa è lo spietato cuore dello Stato” [3].
In seno a questa presa di coscienza, si intrecciano le posizioni pasoliniane relative alla mercificazione dei rapporti umani, alla scoperta di una dimensione “proletaria” derivante anche dai viaggi in India e in Africa, all’avvento di una “preistoria sottoproletaria”: Si apre come un’aurora/ Roma, dietro le spirali del Tevere/ gonfio di alberi splendidi come fiori/ biancheggiante città che attende i non nati,/ forma incerta come un incendio/ nell’incendio di una Nuova Preistoria [4].
Il peso dell’esperienza biografica e culturale di Pasolini si esprime attraverso una “fedele e pure liberissima variazione” [1] del libro di Matteo, in cui Cristo è usato come metafora e mito epico-lirico di una protesta.
“Seguendo le accelerazioni stilistiche di Matteo alla lettera, (…) l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia (…), la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione” [5].
Il rischio della “declamazione astratta” viene rifuggito grazie alla contestualizzazione: il paesaggio è concreto, sensibile, materico, vero. Lo sfondo pietroso degli spazi lucani (inizialmente, Pasolini aveva pensato di girare la pellicola in Israele, in seguito ad un viaggio avvenuto nel 1963), i volti dei comprimari, la presenza di oggetti legati alla vita quotidiana radicano il Cristo pasoliniano (dolceardente) in una cornice reale e riconoscibile, vicino ma inaccessibile sia alla folla del popolo che ai farisei ed ai sadducei, metafora del dominio.
Al taglio neorealistico dato alla rappresentazione degli spazi naturali ed antropizzati si contrappone l’aperto citazionismo pittorico, ispirato a Duccio di Buoninsegna, Piero Della Francesca e Dreyer, mentre l’uso delle musiche “alte” (Bach, Mozart, Prokofiev) nelle scene ricche di solennità si contrappone a quelle popolari (es. spiritual) scelte per le sequenze più tragiche.
“(…) Il Vangelo chiude la prima fase del cinema pasoliniano: sia nel senso che l’autore non ritroverà, se non marginalmente e sempre con ironica consapevolezza, lo slancio utopico e l’empito sentimentale del suo Cristo, sia perché l’equilibrio fra la tecnica e il mito, le due tensioni del cinema di Pasolini (…), si incrina e si spezza infine a favore del secondo polo di attrazione” [1].

[1] Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, ed. Marsilio, 1977
[2] Pier Paolo Pasolini, Le albe, 1942
[3] Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, ed. Garzanti, 1961
[4] Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, 1964
[5] Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, ed. Garzanti, 1964
[6] Marco Bellocchio, I pugni in tasca, ed. Garzanti, 1967

Lascia un commento