AU HASARD BALTHAZAR (1966) di Robert Bresson

balthazarA proposito del titolo del suo settimo lungometraggio, Robert Bresson ha dichiarato: “Prima di tutto, volevo dare al mio asino un nome biblico; gli ho dunque dato il nome di uno dei re magi. Lo stesso titolo viene dal motto dei conti di Baux che si dicevano discendenti dal magio Balthazar e che era Au hasard Balthazar. Amo la rima… e mi piace anche che questo titolo collimi esattamente con il mio soggetto” [1].
All’interno della filmografia di Bresson, Au hasard Balthazar rappresenta uno scarto, rispetto ai film precedenti: Bresson abbandona una struttura ed un percorso rettilinei, a favore “dell’apertura narrativa, (del)la multilateralità delle vite e delle esperienze che il film abbraccia, (del)la polivalenza dei nuclei e dei raccordi semantici” [2].
La genesi della pellicola è stata lunga ed articolata ed è nata da suggestioni talora latenti nell’inconscio di Bresson: “Ricordo che mi svegliai del tutto da questa tenebra una sera a Basilea (…) e mi svegliò il ragliare di un asino sul mercato cittadino. Quell’asino mi colpì enormemente e, chi sa perché, mi piacque in modo straordinario e, nello stesso tempo, a un tratto tutto parve schiarirmisi nel cervello” [3]. E, ancora: “Ho pensato all’asina di Balaam (…). Ho pensato anche alla cerimonia dell’angelo, a Notre-Dame (…). E poi l’asino del presepio, della Domenica delle Palme. Tutti i poeti hanno scritto sugli asini, Dostojevskij, ne L’idiota, ha parlato di un asino molto ammirabile” [4].
La frammentazione dei punti di vista ed il raccordo tra gli stessi è stato uno degli aspetti più difficili ed insidiosi da risolvere: “Pensavo a Balthazar da molti anni. L’ho preso e l’ho lasciato. E poi l’ho ripreso. La prima difficoltà, per me, era di non fare un film a episodi. Avevo molte cose da dire in questo film, molti personaggi da far vivere e bisognava evitare di frantumare” [3]. La dispersione delle figure e dei nuclei narrativi viene evitata grazie all’identificazione tra la figura della protagonista femminile, Maria, e dell’asino Balthazar: tra di essi, occorre leggere affinità e contrappunti in grado di generare una “dinamica più aperta e tuttavia sempre rifluente su se stessa, è lo sguardo che, dietro le apparenze del movimento, ne svela la staticità e la ripetizione” [2].
Tra i temi affrontati da Bresson, filtrati dallo sguardo supplice, innocente ma impietoso di Balthazar, emergono la nuda disperazione delle esistenze degli uomini, le origini del male identificate nel culto del denaro che governa le vite, la visione di un mondo privo di Grazia, intesa come unione di senso e bellezza, in cui violenza, avidità, senso della sopraffazione e corruzione “sembrano essere le direttrici di un’esistenza in cui vivere è un progressivo morire” [2].
“Il cinema sonoro ha inventato il silenzio” [5]: con Balthazar, Bresson risolve, forse, la sua aspirazione più alta, quella di “far sentire il silenzio”. La musica (il secondo movimento della Sonata n.20 di Schubert) è limitata ad un fraseggio interrotto, “una sorta di commento appena sottolineante” [6], i rumori vengono usati, alla pari dell’immobilità sonora, per dividere ed isolare i personaggi, per fornire “sempre il senso dell’urto, della dissonanza” [6].

[1] Intervista a Teleciné, 1966
[2] Adelio Ferrero, Robert Bresson, La Nuova Italia, 1976
[3] Cahiers du Cinéma, n.178
[4] Intervista a Les Arts, 1965
[5] Notes sur la cinématographe, ed. Gallimard, 1975
[6] Giorgio Tinazzi, Il cinema di Robert Bresson, ed. Marsilio 1976

NOTE BIOGRAFICHE
Le notizie circa l’infanzia di Robert Bresson, nato nella regione francese di Puy-de-Dôme nel settembre del 1907, sono praticamente inesistenti: egli stesso è sempre stato reticente nel descrivere questo periodo della sua vita. Fu studente poco assennato: “A diciassette anni non avevo letto niente e non capisco come sia riuscito a superare la maturità. Quel che ricevevo dalla vita, non erano idee tradotte in parole, erano sensazioni. Musica e pittura – forme, colori- erano per me più vere di ogni libro conosciuto” [1].
Eppure, qualcosa, nella sua vita, lo indusse a riconsiderare la letteratura: “Più tardi, con grande desiderio – ne avevo talmente bisogno- mi sono buttato su Stendhal, su Dickens, su Dostojevskij al tempo stesso che su Mallarmé, Apollinaire, Max Jacob, Valéry. Montaigne e Proust – pensiero, lingua- mi hanno prodigiosamente colpito” [1].
Si laurea in filosofia, si cimenta nella pittura.
È di definizione incerta il momento in cui si avvicina definitivamente al mondo della cinematografia, ma, nel 1934 (secondo altri, nel 1939), è già regista: realizza il mediometraggio Affaires Publiques, andato perduto, definito dallo stesso Bresson un comique fou [2].
Gli vengono attribuite numerose e svariate collaborazioni, comprese tra il 1933 e il 1939: Hymann, Gleize, Zelnick, Billon, Clair. Bresson smentisce o minimizza il proprio apporto, solitamente riconducibile a riscritture dei testi.
Tra il 1940 e il 1941, è prigioniero in un campo di prigionia tedesco e l’esperienza riecheggia nel film Un condannato a morte è fuggito (1956), premiato per la Miglior Regia a Cannes nel ‘57.
Durante l’occupazione tedesca della Francia, realizza il primo lungometraggio ufficialmente documentato, La confessa di Belfort (1943): “in quegli anni il regista, secondo una costante del suo atteggiamento di fronte agli avvenimenti politici, anche decisivi, sembra soprattutto voler conservare le distanze: non fa parte del comitato clandestino di liberazione del cinema francese (…), ma non ha nulla da spartire con i cineasti che, direttamente o meno, assecondano il regime collaborazionista” [3].
A partire dagli anni Cinquanta, Bresson elabora una ricerca teorica che, nel 1975, confluirà nelle Notes sur la cinématographe: egli sostiene che “il regista deve liberarsi dai pregiudizi ricavati dalle altre arti, per interrogare le possibilità significative del proprio mezzo espressivo” [4]. “Il cinematografo è una scrittura di immagini in movimento e di suoni. (…) Il vero del cinematografo non può essere il vero del teatro, né il vero del romanzo, né il vero della pittura. (Ciò che il cinematografo raggiunge con i suoi mezzi non può essere ciò che il teatro, il romanzo, la pittura ottengono con i propri)” [5].
Negli anni, la costante ricerca formale di Bresson si concretizza in una destrutturazione e progressiva sottrazione degli elementi costitutivi del linguaggio cinematografico: “Costruisci il tuo film sul bianco, sul silenzio e sulla immobilità. Soltanto gradualmente ho soppresso la musica e mi sono servito del silenzio come elemento di composizione e come mezzo di emozione” [5].
Durante la propria carriera, realizza undici film e riceve numerosi riconoscimenti: nel 1989, viene premiato con il Leone d’Oro alla Carriera alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Muore a Parigi alla fine del 1999.

[1] Intervista a Le Monde, 1971
[2] Les nouvelles litéraires, 1966
[3] Adelio Ferrero, Robert Bresson, La Nuova Italia, 1976
[4] Alessio Scarlato, in Enciclopedia del Cinema Treccani, 2003
[5] Notes sur la cinématographe, ed. Gallimard, 1975

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A cura di Stefania