Walt Disney e il Paese delle Meraviglie: l’immersione totalizzante nella realtà del sogno

NientePopcorn.it vi propone uno spunto di riflessione legato al Disney-pensiero, alla filosofia creativa di Walt Disney (1901-1966), al suo costante desiderio di veder fondersi la dimensione del sogno e della meraviglia con la realtà quotidiana. Il testo che vi proponiamo, perciò, non corrisponde a una biografia di Walt Disney e non rappresenta una disamina sulla filmografia disneyana, poiché risulta circoscritto ai soli titoli realizzati e supervisionati direttamente da Walt Disney.

La rivolta disneyana

Intorno al 1940, Sergej Ejzenštejn scriveva: “Disney è una meravigliosa ninna nanna per i sofferenti e gli sfortunati, gli oppressi e i deprivati. Per coloro i quali sono incatenati dalla matematica precisione del tempo agli orari di lavoro e ad altri impegni quotidiani, le cui vite sono delineate dal centesimo e dal dollaro. Le cui vite sono suddivise in piccoli riquadri, come quelli di una scacchiera, con la sola differenza che, anche se sei un cavaliere o una torre, una regina o un alfiere, qui, puoi solo perdere. E questo perché le caselle nere di questa scacchiera non si alternano a quelle bianche, perché sono tutte di un uniforme colore grigio, giorno dopo giorno. Grigio, grigio, grigio. Dalla nascita alla morte. (…) Ecco perché i film Disney avvampano di colore. (…) Ecco perché, in essi, l’immaginazione è senza limiti: perché i film Disney sono una rivolta nei confronti delle ripartizioni e delle legislazioni, si oppongono alla stagnazione dello spirito e al grigiume. La rivolta è lirica. La rivolta è un sogno (…) verso cui scappare, come uno di quei mondi in cui tutto è diverso, in cui ci si sente liberi da ogni catena” [1].
Liberi proprio come i fantasmi s-catenati del corto TOPOLINO E GLI SPETTRI (Haunted House, 1929).

L’attitudine filosofica alla creazione di un Paese virtuale

Topolino, Sergej Ejzenštejn e Walt Disney, 1930

Topolino, Sergej Ejzenštejn e Walt Disney, 1930

Ejzenštejn conobbe personalmente Walt Disney nel 1930, quando si recò negli Stati Uniti per lavorare a un film commissionatogli dalla Paramount, UNA TRAGEDIA AMERICANA (An American Tragedy, 1931, la cui regia venne, poi, affidata a Josef Von Sternberg). Della fallimentare esperienza lavorativa e personale in America, Ejzenštejn avrebbe ricordato con piacere solo l’incontro con Walt Disney che, nei suoi scritti e nelle sue lezioni presso l’università russa, avrebbe definito come “il più interessante regista americano”. Ejzenštejn aveva in odio il carrozzone hollywoodiano, le star e gli eventi mondani, ma fece un’eccezione per due dei simboli del mainstream dell’epoca: Charlot e Topolino. I due, disse, “si assomigliano, sono anticonformisti, due indipendenti contro le major” [2].
Il cineasta sovietico era un grande estimatore di Walt Disney e del suo lavoro. Potenzialmente distanti per vari motivi, in primis per via delle diverse tecniche cinematografiche adottate (in realtà, Ejzenštejn, sperimentò anche il cinema animato e, non a caso, inserì venti secondi di animazione che avevano per protagonista Topolino in un progetto ispirato ad alcune teorie freudiane dal pittore e grafico El Lisickij), Disney e Ejzenštejn erano accomunati dal fatto di essere considerati delle minacce, l’uno in quanto collaboratore dell’FBI di Hoover, l’altro perché considerato un pericoloso bolscevico, un “cane rosso”, come Charlie Chaplin. Tale condizione li ha resi avulsi dal contesto hollywoodiano, ma li ha uniti umanamente, prima, e artisticamente, poi.

Walt Disney al lavoro

Walt Disney al lavoro

Tra Disney e Ejzenštejn, tra il rappresentante dell’America del New Deal e quello della Russia rivoluzionaria, la “strana coppia che fonda l’etica/estetica della modernità” [3], è ravvisabile una corrispondenza fondamentale: la creazione di un paese virtuale. A dispetto delle apparenze, non è la magia che pervade i lavori di Disney a permettergli di dare vita a questo universo alternativo, ma la sua attitudine filosofica alla creazione di un Regno Incantato. Ancor prima che fondatore di Disneyworld, concretizzazione, seppur parziale, dell’altromondo disneyano, Walt è stato un “operatore poetico-industriale” che lavorava nei Disney Studios (prima in quelli di Los Angeles, in Hyperion Avenue e, poi, dal 1940, in quelli di Burbank) assumendo i ruoli più disparati, disegnando, avvitando bulloni, prestando la propria voce a Topolino, al fine di creare, con le sue mani, un altro-mondo.

Il trionfo sui vincoli e l’esperienza sensoriale basata sull’inesistente

Per Ejzenštejn, i film Disney fornivano il giusto contesto per esaminare un problema da lui ritenuto centrale nella teoria e nella pratica dell’arte in generale. In termini anglofoni, tale ambito di speculazione prendeva il nome di Groundproblem [4]. Lo si potrebbe tradurre come “problema-base”, perché soggiacente rispetto alla teoria dell’arte, nonché suo costituente. All’interno dell’atto creativo, nel naturale processo percettivo, esso corrisponde alla correlazione tra gli elementi logico-razionali e quelli sensuali dell’arte.
Il mondo parallelo di Walt Disney si coniuga con l’ideale di Ejzenštejn secondo cui, nella creazione artistica, egli ritiene più importante affidarsi alla sfera sensoriale che a quella logica. L’unica realtà certa è quella dell’immagine. Il cinema di animazione disneyano è il regno del paradosso, dell’illusione, della fantasmagoria. Suoni, immagini e parole si fondono per generare un’esperienza sensoriale basata sull’inesistente [5].
“Gli animali di Disney, i pesci e gli uccelli hanno la capacità di allungarsi e restringersi, di beffarsi della propria struttura, proprio come il pesce tigre e il polpo gigante fanno con le categorie della zoologia. Questo trionfo sui vincoli imposti dalla forma è sintomatico. Questo trionfo su tutti i vincoli, su tutto ciò che crea costrizione, riecheggia ovunque, dagli stratagemmi usati [per combattere] fino all’urlo di trionfo de I TRE PORCELLINI: ‘Chi ha paura del lupo cattivo?’ Con quale gioia trionfante milioni di cuori cantano in coro! Tutti quelli che, in ogni momento, sono spaventati dal grande lupo grigio. (…) Ma non abbiamo paura che il grande lupo grigio balzi fuori dallo schermo. Questo grido ottimista può essere solo disegnato, perché non c’è alcuna possibilità di essere davvero ottimisti e di lanciarlo in una realtà fondata sul capitalismo, senza suonare mendaci! Ma, fortunatamente, ci sono i disegni e i colori. La musica e i cartoni animati. Il talento di Disney e ‘il grande consolatore’, il cinema” [6].

Disney attraverso lo specchio

Il cinema d’animazione di Disney non copia la Natura, ma, usa il concetto di metamorfosi sia a livello narrativo (in termini psicologici, per esempio, ciò corrisponde al cambiamento del protagonista al termine dell’avventura) che visivo (mutazioni delle forme e delle dimensioni dei corpi, delle sagome degli oggetti, ecc.). Inventa mondi nuovi in cui convergono elementi comuni all’immaginario collettivo e alla memoria condivisa, consentendo allo spettatore di entrare agevolmente nell’ambiente di nuova concezione. Il Paese delle Meraviglie, Wonderland, diviene luogo raggiungibile, accessibile, abitabile, un mondo trasformato, capace di uscire da sé stesso, di andare oltre sé stesso [7]. “Il pensiero sensibile diventa uno strumento di analisi, mostra ciò che è invisibile al primo sguardo, e così il racconto che inanella l’opera disneyana lungo un corpus filmico senza soluzione di continuità, forma un mondo che da parallelo si fa convergente, si sovrappone a quello reale” [8].

"Alice's in Wonderland" (1923)

“Alice’s in Wonderland” (1923)

Alla piccola Alice di ALICE’S WONDERLAND (1923), il cortometraggio con cui Disney tentò di risollevare le sorti economiche della sua prima società, la Laugh-O-Graph Films, accade esattamente questo. Analogamente a quanto viene raccontato nella sua matrice letteraria, firmata da Lewis Carroll nel 1865, la protagonista del salto nel vuoto di Walt penetra in un mondo contiguo, Cartoonlandia, che presenta caratteristiche familiari, ma alterate dalla fantasia. Ad alimentare la teoria disneyana dell’immersione sensoriale in un altro-mondo, contribuì l’inserimento nel cortometraggio di invenzioni visive sfrenate e l’uso di tecniche di animazione all’avanguardia. Ribaltando la caratteristica che aveva fatto la fortuna del filone fantastico già battuto all’epoca da colleghi e concorrenti come i Fratelli Fleischer con la serie Out of Inkwell (gli episodi di Koko the Clown, in particolare), i cui personaggi animati irrompevano nel mondo reale, Disney realizzò un cortometraggio visionario in cui una bambina in carne e ossa entrava in un mondo animato. Caratterizzato da precise peculiarità estetiche, l’esito espressivo fu particolarmente felice, tanto da permettere un fluido accostamento dell’opera non tanto alle visioni letterarie di Carroll, quanto al suo noto patrimonio fotografico di impronta vittoriana [9].

Disneyland, la bolla di stupore

Travalicando la quarta parete, concretizzando finalmente quella contiguità di fondo che si prefigura di unire corpi e figure in uno stesso spazio [10], Walt Disney giunse ad offrire un’ulteriore immersione totalizzante dello spettatore nel mondo della meraviglia, progettando la realizzazione di Disneyland. Al momento della sua inaugurazione (1955), rappresentava il primo parco divertimenti a tema del mondo, precursore delle teorie sul postmodernismo urbanistico elaborate da Robert Venturi nei primi anni Settanta e prototipo e concretizzazione di quello che, solo nel 1992, l’antropologo Marc Augé avrebbe definito come esempio di non-luogo. “Il viaggio a Disneyland risulta essere un turismo al quadrato, la quintessenza del turismo: quel che veniamo a visitare non esiste” [11].
Fin da principio, Disney “legò l’immagine di questo posto della meraviglia a una antica esigenza umana che tanto si è rivelata produttiva nel dominio della cultura: l’esigenza di (…) trovare un punto di contatto tra il mondo degli adulti e quello straordinario laboratorio di umanità allo stato nascente che è l’immaginario infantile” [12]. Dagli albori del suo progetto, con un incredibile istinto profetico, Disney individuò gli elementi fondamentali del parco nei due principali oggetti di speculazione futura di Venturi, la main street e le stripes, ovvero gli ingredienti ambientali più specifici del villaggio americano della fine del XIX secolo.

Mappa di Disneyland (1955)

Mappa di Disneyland (1955)

Esattamente come i Giardini di Kensignton descritti da J.M.Barrie nel romanzo Peter Pan (che, già nel 1953, aveva ispirato un fortunato lungometraggio animato disneyano), “Disneyland ha molti cancelli per uscire, ma uno solo per entrare” [13]. Isola che non c’è – Neverland, Paese delle Meraviglie – Wonderland, ma anche prototipo urbanistico, metropoli vivibile, celebrazione della cultura americana e di quella europea. Nel complesso, nelle intenzioni primigenie del suo creatore, Disneyland non corrispondeva affatto a un Paese dei Balocchi, ma all’incarnazione architettonica dello spirito delle piccole città di provincia, un luogo capace di evocare un tempo indefinito, né passato, né presente, forse futuro. Eppure, benché le apparenze sembrava potessero affermare il contrario, questo luogo o qualsiasi porzione di esso, dalla Main Street al Castello, non somigliava realmente a nessun altro esistente o esistito. Il parco era stato accuratamente studiato affinché il visitatore trovasse uno spazio d’azione apparentemente personale e casuale, costruito alternativamente come le sequenze di un film, con campi lunghi e rivelazioni improvvise, e come uno spazio pittorico malleabile. Disneyland, i cui tratti pedonali erano stati calcolati per non stancare mai il passeggio del visitatore sospeso in una bolla di stupore, era stato concepito per concedere la libertà di credere che ogni cosa potesse essere immaginata come se fosse esistita davvero. Disneyland è stata progettata come un insieme potenzialmente infinito di moduli immaginativi, in cui il visitatore, attingendo più o meno consciamente al proprio vissuto, alla propria formazione culturale, alla propria esperienza, avrebbe dovuto contribuire a determinare non solo la propria esperienza turistica, ma le caratteristiche spaziali del parco. Instradato dagli indizi forniti da Disneyland, ogni visitatore/spettatore/attore sarebbe stato chiamato a fornire una personale soluzione inventiva del luogo: “la figura evocata dal ricordo sostituisce appunto un atto compositivo dell’immaginazione che, pescando nel repertorio del già fatto, si esime dall’inventare quella figura o quella situazione che la vivacità dell’esperienza postulava. Talvolta, un andito buio, una strada fiocamente illuminata, un lampione intravisto nella nebbia, possono stimolare l’immaginazione e porla in orgasmo inventivo (…). Ma la stessa situazione, in altra sede, potrebbe divenire veramente e profondamente tipica (…)” [14].

Foto di gruppo personaggi disney

A dispetto dell’uso di forme architettoniche fantasiose e creative, i dettagli costruttivi e d’arredo confluiti nell’allestimento originario di Disneyland si avvalsero contemporaneamente di una precisa ricerca filologica e di trucchi scenografici tipicamente teatrali. In Disneyland, l’uso dell’estetica e della grafica, in particolare l’adozione eclettica di precisi caratteri stilistici architettonici, anticiparono i gusti e i metodi di quella cultura pop e di quel citazionismo che, ancora, non esistevano, ma che si sarebbero pienamente affermati pochi anni dopo. La città dei sogni costruita da Disney a immagine e somiglianza del suo mondo alternativo ha trasformato l’architettura in racconto, consentendo al visitatore di immergervisi tridimensionalmente, diventando protagonista del paesaggio, interagendo con esso, come la piccola Alice.
Quello creato da Walt per il suo parco fu, letteralmente, uno “squarcio di memoria collettiva”, uno “spazio irreale e fantastico” [15], in cui l’architettura, la materia coniugata con la forma, è racconto e stimolazione fantastica. L’aberrazione sensoriale legata alla frequentazione di questo luogo, descritta nel curioso film horror ESCAPE FROM TOMORROW (2013) di Randy Moore, sembra legata più all’alienazione tipica della società post-industriale che alle sue caratteristiche fondanti, in cui la magia evocata dalla logica progettuale che le aveva adottate è stata completamente assorbita dalla sua funzione commerciale.

Il binomio Disney-fiaba: la rielaborazione del folklore e la potenza evocativa dell’immaginario disneyano

Sfruttando il senso della meraviglia assoluta (ben esplicato da lavori cinematografici come quelli di George Méliès) e il concetto di sospensione della realtà che implica un abbassamento della soglia della razionalità da parte dello spettatore (o del visitatore, nel caso del parco a tema), Disney ha sfruttato sia la forza dell’artificiosità derivante dallo strumento utilizzato per il racconto (il cinema di animazione e le tecniche ad esso correlate) che una forma narrativa universale, comune a tutte le culture: “Nel suo itinerario simbolico che contempla il fantastico, [la fiaba] diviene presto il tema prediletto” [16].

L'eclettismo e la rielaborazione del folklore: "Biancaneve e i sette nani" (1939)

L’eclettismo e la rielaborazione del folklore: “Biancaneve e i sette nani” (1939)

Fin dai suoi cortometraggi d’esordio, risalenti ai primi anni Venti (alcuni di essi sono andati irrimediabilmente perduti), la fiaba, principalmente di ispirazione europea, ha costituito l’humus narrativo fondamentale per i lavori di Walt Disney. Cenerentola, Cappuccetto Rosso, i fagioli magici che sarebbero ritornati negli anni successivi in realizzazioni tecnicamente più mature ed economicamente più consistenti, furono i primi soggetti scelti da Disney per sperimentare le forme cinematografiche del cartoon e dei Lafflets, sorta di brevi documentari a scopo divulgativo (newsreel) in parte animati. Con BIANCANEVE E I SETTE NANI (Snow White and the Seven Dwarfs, 1937), il binomio fiaba-Disney trova per la prima volta espressione la sua prima in maniera pienamente codificata. Da quel momento e fino alla sua morte (1966), Walt Disney avrebbe seguito personalmente la realizzazione di altri 8 lungometraggi animati ispirati direttamente a fiabe o a matrici letterarie europee di impianto fantastico.
Il racconto fiabesco disneyano nasce per rielaborare le radici orali e letterarie della matrice, “in un percorso di uscita dalla paura” [17]. Il rischio corso dalle produzioni disneyane, concretizzatosi negli anni, è quello di essere tacciate di edulcorazioni eccessive e di semplificazioni banalizzanti. In realtà, la rilettura delle fiabe firmate da Disney non dimostrano altro che la pratica della riproduzione del mito da parte dell’industria cinematografica e dello spettacolo. Hollywood, di cui i Disney Studios fanno parte, corrisponde a un’officina cosmopolita che si rivolge contemporaneamente al singolo, alla collettività e a nessuno nello specifico. La varietà di toni che caratterizza le produzioni disneyane (ironia, sensualità, eroismo, poesia, ecc.) è una forma calcolata di omogeneizzazione tipica della cultura di massa volta a veicolare con la maggiore chiarezza possibile un messaggio preciso. Si tratta della realtà del sogno, a cui possono aspirare tutti gli elementi che compongono la società, adulti, bambini, adolescenti, uomini e donne, a prescindere dalla loro formazione culturale. “Ciò non comporta la distruzione del folklore: agli antichi folklori si sostituisce un nuovo folklore cosmopolita” [18].

Il Medioevo secondo Walt Disney: "La bella addormentata nel bosco" (1959)

Il Medioevo secondo Walt Disney: “La bella addormentata nel bosco” (1959)

Tra i mondi e le tradizioni (ri)generate dall’universo disneyano, spicca la rappresentazione della cosiddetta Età di Mezzo, che occupa una parte considerevole della filmografia disneyana, sia in versione cartoon che in live action o in tecnica mista. A riprova della potenza evocativa del progetto complessivo elaborato da Walt, “si può parlare senza esagerazioni di un Medioevo secondo Walt Disney. Il successo di questa particolare raffigurazione (…) ha condizionato la maniera con cui oggi vede il Medioevo chi non è uno specialista di quel periodo” [19]. Il Castello di Disneyland, riproduzione di quello de LA BELLA ADDORMENTATA NEL BOSCO (Sleeping Beauty, 1959), diventato il logo delle produzioni degli Studios dal 1985, miscuglio di elementi formali desunti perlopiù dai manieri rinascimentali francesi, è diventato l’archetipo universale del castello medievale, a dispetto del fatto che costruzioni di quel preciso periodo storico fossero ben diverse. Ancora una volta, lo specchio di Alice attraversato dallo spettatore deforma la realtà per crearne una nuova in cui l’approccio storiografico è totalmente assente e le cui distorsioni regolate da un principio di verosimiglianza intrinseco e autonomo inducono tendenzialmente al sorriso, proponendo una possibile correzione delle incongruenze del mondo reale e presente. Prescindendo dall’intervento divino, che rappresenta un elemento ricorrente nella fiaba tradizionale, il racconto disneyano medievaleggiante si basa sull’opposizione tra buoni e malvagi, con l’inserimento di elementi magici, cromaticamente definiti (colori primari e nero in opposizione), facilmente riconoscibili da grandi e piccini, incarnati da maghi e fate da una parte e da streghe o stregoni dall’altra, in una riproposizione animata del filone cinematografico fantasy sword and sorcery nato negli anni Trenta sulla falsariga dei racconti di avventura ottocenteschi di Sir Walter Scott, prima, e di quelli di Robert Ervin Howard (Conan), poi. Un corretto uso delle conoscenze consente di ristabilire l’ordine, come il giusto uso della magia permette di raddrizzare i torti e di punire i malvagi. Una lettura in una prospettiva storiografica delle fiabe disneyane consente di interpretarle come una riscrittura in positivo della Storia: “Ricreare il passato per emendare il presente e migliorare il futuro” [20].

L’espansione potenzialmente infinita dell’universo disneyano

Studi sul personaggio: "L'apprendista stregone" in "Fantasia" (1940)

Studi sul personaggio: “L’apprendista stregone” in “Fantasia” (1940)

Ejzenštejn confessò [21] di avere tre principali riferimenti immaginifici: una vecchia storia ascoltata da bambino, circa un arabo e il suo cammello impazzito; un’antica visione di angeli discesi all’Inferno per dare sollievo momentaneo ai corpi dei dannati con le loro mani fresche; il gobbo Quasimodo del romanzo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo dissetato dalla gitana Esmeralda, mentre si trova ingiustamente ai ceppi, dileggiato.
Come per incanto, Ejzenštejn ritrovò tutte queste suggestioni nel primo lungometraggio Disney, BIANCANEVE. Il film disneyano gli consegnava le stesse sensazioni, il medesimo senso di conforto agli schiaffi ardenti inferti ogni giorno dalle ingiustizie e dai tormenti della società. Attraverso la magica sospensione creata dai suoi lavori, Disney consente di catturare un istante di completo e totale abbandono da tutto ciò che connette l’uomo ai dolori causati dalle imposizioni stabilite dall’ordine sociale di ispirazione capitalista.
In un gioco paradossale, l’antropizzazione degli animali, più che derivare dalla tradizione favolistica classica di Esopo, sembra essere ispirata da una fuga dall’inumanità del mondo. E, allora, quale realtà (alternativa) è migliore di quella in cui un topo inizia a fischiettare (STEAMBOAT WILLIE, 1928)?

La logica musicale che trasforma il contesto e che permette ad animali e oggetti di mutare il proprio corpo a ritmo con la musica è l’elemento su cui si fondano tutti i cortometraggi della serie Silly Symphonies, antinarrazioni [22] costruite in perfetto accordo con le melodie musicali composte a posteriori, e il grande, utopistico progetto di FANTASIA (Fantasia, 1940), un film culturale che, nelle intenzioni di Walt, avrebbe dovuto ridefinire i rapporti tra musica e immagine, ma che, in concreto, ottiene un duplice effetto inedito. Quello, involontario e da un certo punto di vista parzialmente fallimentare, di asservire un impianto visivo moderno come quello del cinema animato ad uno musicale classico [23], e quello di manipolare e ibridare una materia consolidata e definita (nel caso specifico, appunto, la musica classica).
Il racconto di FANTASIA si dilata in sette quadri, ampliando i confini di quell’universo archetipico che è il succitato Paese delle Meraviglie, aspirando a una sorta di espansione perpetua intimamente connessa con Disneyland, il luogo in cui si concretizza per un istante un ideale di vita irrealizzabile. La forma episodica presuppone un possibile intreccio delle singole storie capace di generare una sequenza narrativa aperta, tendente all’infinito. Disney è “il cineasta consapevole di essere artefice e insieme testimone dei mutamenti che attraversano l’immaginario cinematografico” [24].
Sembra un caso (ma forse non lo è) che, nello stesso anno in cui FANTASIA debuttava al cinema, Ejzenštejn aveva tentato di coniugare immagine e movimento musicale con la sua Valchiria, al Teatro Bol’šoj di Mosca.

Note bibliografiche

[1] Sergej Ejzenštejn, On Disney, in Walt Disney, a cura di Edoardo Bruno ed Enrico Ghezzi, ed. La Biennale di Venezia, 1985, p.26
[2] Mariuccia Ciotta, Walt Disney. Prima stella a sinistra, ed. Bompiani, 2005, p.22
[3] Mariuccia Ciotta, op. cit. p.71
[4] Naum Kleiman, Introduction and annotation, On Disney, op. cit., p. 23
[5] Mariuccia Ciotta, op. cit., p.75
[6] Sergej Ejzenštejn, op. cit., p. 26
[7] Sergej Ejzenštejn, op. cit., p. 30
[8] Mariuccia Ciotta, op. cit., p.67
[9] Oreste de Fornari, Walt Disney, Il Castoro, 1995, p.14
[10] Enrico Ghezzi, W.D./L’anima il corpo il nome, in Walt Disney, a cura di Edoardo Bruno ed Enrico Ghezzi, ed. La Biennale di Venezia, 1985, p.15
[11] Paolo Portoghesi, Disneyland un villaggio post industriale, in Walt Disney, a cura di Edoardo Bruno ed Enrico Ghezzi, ed. La Biennale di Venezia, 1985, p.21
[12] Marc Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Bollari Boringhieri, 1999, p.25
[13] Mariuccia Ciotta, op. cit. p. 221
[14] Umberto Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, p. 212
[15] Paolo Portoghesi, op. cit., p. 21
[16] Roberto Lasagna, Walt Disney e il cinema, ed. Falsopiano, 2001, p. 41
[17] Mariuccia Ciotta, op. cit. p. 101
[18] Roberto Lasagna, op. cit., 2001, p. 44
[19] Matteo Sanfilippo, Il Medioevo secondo Walt Disney, Castelvecchi, 1993, p.91
[20] Matteo Sanfilippo, op. cit., p.109
[21] Sergej Ejzenštejn, op. cit., p. 28
[22] Mariuccia Ciotta, op. cit. p. 111
[23] Roberto Pugliese, Fascinazione e classicità, in Segnocinema, n. 52, p.20, e Siegfried Kracauer, in Mariuccia Ciotta, op. cit., p.111
[24] Roberto Lasagna, op. cit., p.29

A cura di Stefania

1 commento

  1. Stefania / 5 Dicembre 2016

    Dicembre 2016 è un mese ricco di ricorrenze Disney: oltre alla nascita e alla morte di Walt, infatti, ricorre anche il 45mo anniversario della scomparsa del fratello Roy (20 dicembre 1971), curatore degli interessi economici degli Studios.

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