Il cinema di Sam Peckinpah

“Chi sei tu?”, “Bella domanda”

Prendendo in prestito una celebre battuta tratta da un suo film (Pat Garrett & Billy The Kid), introduciamo una delle figure più carismatiche del cinema statunitense contemporaneo.
Prima che regista di culto a livello internazionale, prima ancora di essere attore e sceneggiatore, Sam Peckinpah (Fresno, CA, 21 febbraio 1925 – Inglewood, CA, 28 dicembre 1984) è stato un Uomo.
Un uomo con una visione particolare del mondo, decisamente sopra le righe, un uomo tanto geniale quanto sregolato.
Per decenni, è stato considerato il regista della violenza. Se fosse stato solo questo, oggi non avremmo molto da dire su di lui.
È innegabile che la violenza sia presente in modo prepotente in buona parte dei suoi film, ma, solo per fare alcuni esempi all’interno della sua ricca filmografia, L’ultimo Buscadero o La Ballata di Cable Hogue non ne stillano una sola goccia.

Gli antieroi ambigui di Peckinpah

Il nome di Peckinpah è indissolubilmente legato al mito del West, ma anche questo elemento rischia di ridurre la portata della sua cinematografia: l’aver realizzato cinque western all’inizio della sua carriera lo ha connesso intimamente a questo genere, ma egli ha partorito opere di argomento bellico, a tema spionistico, ha realizzato action in puro stile anni ’80, thriller cupi ed inquietanti.
Si è detto spesso dell’influenza del nostrano Sergio Leone sulla sua visione del cinema, dimenticando che i ritmi dell’uno e dell’altro sono decisamente diversi.
Le pellicole di Peckinpah sono state spesso definite barocche, in particolare per via dell’insistito uso del ralenti, ma, ad un’analisi più ponderata, di barocco, nel cinema di Peckinpah, vi è ben poco. Lo stile di Peckinpah è, al contrario, secco, asciutto, essenziale.
Un esempio di barocchismo è, invece, il tempo dilatato che contraddistingue il film di Sergio Leone C’era una volta il west (1968). Mentre in Leone, poi, la netta distinzione tra chi si schiera dalla parte della giustizia e chi no è facilmente percepibile, nel cinema di Peckinpah i personaggi sono ambigui, ondeggiano, vivono la vita in un limbo fino al momento in cui le vicende non impongono loro di prendere una decisione: il loro motto è ”The right choice for the wrong reason”.
Gli eroi di Peckinpah non sono quelli del western classico: i suoi personaggi incarnano un pezzo di storia americana, spesso quella volutamente dimenticata. Egli ama ritrarre sia i cowboys che le spie, i camionisti, gli intellettuali, i fan del rodeo, i soldati, i gangster da quattro soldi. Si tratta di personaggi che hanno letteralmente perso la bussola: non sanno più chi sono, dove si trovano, dove sono diretti, segnati dal loro passato e dalle scelte da fare nel presente, sono contraddittori e moralmente ambigui, incerti e discutibili, non hanno strutture di riferimento, non hanno valori a cui aggrapparsi. Ecco perché i film di Peckinpah risultano ancora oggi attualissimi.

L’abuso di potere e l’individualismo anarchico

Le pellicole di Peckinpah vanno al di là della violenza: esse sono sostanzialmente incentrate sull’abuso di potere ed è dalla contrapposizione tra questo e le reazioni che esso genera che scaturisce la costante sensazione di altissima tensione che sottende i lavori di Peckinpah.
All’abuso, perpetrato da singoli coalizzati, si contrappone l’individualismo, l’unico modo possibile per difendersi dalle prevaricazioni: il personaggio di Anatra d’Acciaio dello spensierato road movie Convoy ne è un fulgido esempio.
Gli antieroi di Peckinpah non si rassegnano dinanzi all’abuso di potere, si pongono al di sopra della massa e rincarano la dose: ”Quando si sceglie di stare con qualcuno si va fino in fondo, altrimenti si è come un animale”, proclama il protagonista, anarchico individualista, di Osterman Weekend.
I personaggi dei film di Peckinpah vivono la quotidianità di piccole località, ambienti spesso provinciali e marginali, o, all’opposto, vivono in grandi città caotiche: il regista ne approfitta per puntare l’occhio della macchina da presa sul particolarismo locale, sulle parate, sui festeggiamenti, sul pubblico meravigliato da una gara, sui pedoni che attraversano una strada, tratteggiando velocemente i caratteri di una società priva di una forte identità.
Gli antieroi di Peckinpah sono dei perdenti sconfitti in anticipo, degli emarginati, dei solitari che non ricavano alcun profitto nell’accollarsi avventure oggettivamente impossibili: Sam era un romantico vecchio stampo e nutriva una passione quasi morbosa per i perdenti pronti all’autodistruzione.
Il motivo per questa passione è semplice: questi personaggi ricalcano, chi più chi meno, la figura dello stesso Peckinpah.

Il cinema come rappresentazione della propria vita

Classe 1925, Sam era figlio del melting pot tipico degli Stati Uniti: egli era un mezzosangue nelle cui vene vi erano tracce d’Irlanda, Olanda, Galles, discendente di ben due tribù di valorosi nativi d’America.
Due furono le stirpi della sua famiglia: da una parte, gli allevatori provenienti dalle montagne e dall’altro gli uomini di legge. Il nonno materno, il padre e il fratello, infatti, furono giudici. Ai piedi dell’Alta Sierra, il nonno, David Church, aveva un ranch di 4000 acri e le montagne situate a circa 25 miglia da Fresno portano ancora il nome Peckinpah.
Crebbe in un ambiente wasp, tra pionieri e uomini di legge protestanti, in mezzo alla natura, in seno ad una famiglia autoritaria. Laureatosi in drammaturgia, operò prima nell’ambiente televisivo e poi in quello cinematografico, dove soffrì per anni le lungaggini da parte dei produttori che in più occasioni lo sottoposero a ritmi di lavoro decisamente pesanti, imponendo, inoltre, notevoli tagli alle sue opere.
L’etica, l’eroismo, il nichilismo, lo scetticismo, il cinismo ed il machismo che si incontrano nei suoi film derivano innegabilmente dalle sue esperienze personali, un bagaglio che Sam si porterà dietro fino alla fine, quando, neppure sessantenne, verrà stroncato da un ictus.
Considerati suddetti elementi costitutivi del suo cinema, fu praticamente inevitabile per lui non essere accusato di misoginia e di maschilismo. È fuor di dubbio che, nei suoi film, Peckinpah prediliga una visione del mondo basata sull’assioma dominati-dominanti e che ami sottolinearne l’aspetto prettamente sessuale, anche quando esso non viene apertamente mostrato, un rapporto carnale che comincia con un atto di passività da un lato e di attività dall’altro.
Il nostro è un mondo difficile, pieno di violenza: forse, è per questo che la visione di Peckinpah del pacifismo non contemplava la minima rinuncia alla violenza. Per Peckinpah, la parabola cristiana del “porgi l’altra guancia” non ha mai funzionato. Se un uomo viene da te e ti taglia una mano, tu non puoi offrirgli l’altra. Egli è consapevole che la violenza non è ciò che fa di un individuo un uomo, ma se essa arriva, non le si può sfuggire.

L’uomo che amava le donne (e il Messico)

Molte delle critiche piovute su Peckinpah erano legate alla rappresentazione delle donne: la Teresa del Mucchio selvaggio o la Amy di Cane di paglia non mostrano particolari doti di fedeltà o di moralità. Ciò che spesso la critica del tempo si è scordata è che Peckinpah amava tratteggiare personaggi femminili dal carattere straordinario: basti pensare alla Kit Tildon del suo primo film, La morte cavalca a Rio Bravo, o alla Ali Tunner di Osterman Weekend, senza scordare quella sorta via di mezzo rappresentata dalla Carol di Getaway!. Le donne di Peckinpah sono forti, disciplinate, con un carattere d’acciaio, altre invece sono delle poche di buono, delle disoneste, deboli ed infide. Però, Peckinpah le ama tutte ed il suo rude affetto emerge dalle spiccate peculiarità che attribuisce loro. Ciascuna delle donne rappresentate da Peckinpah incarna una o più delle doti che egli ha sempre ricercato nelle proprie compagne. Peckinpah non negherà mai le sue ottime relazioni con alcune prostitute. Le considerava donne oneste, le trattava con umanità e con rispetto: la prostituzione femminile, non a caso, è uno dei temi che ricorre spesso nelle sue pellicole. Ne La ballata di Cable Hogue, per esempio, la donna-angelo Dantesca è una sgualdrina e qui Peckinpah ripropone la sua storia d’amore con una prostituta, ambientandola in un’oasi artificiale in mezzo al deserto e raccontando in maniera inedita il tema dell’amore fisico.
E i bambini? C’è spazio anche per loro, spesso inseriti in un ambiente violento, di cui assorbono tutte le caratteristiche, positive e negative: il fanciullino come spugna.
Tra le tante passioni della sua vita, Peckinpah dichiarava apertamente il proprio amore per il Messico: si trattava di una passione viscerale, un rapporto particolare nato subito dopo la guerra di Indocina, dove aveva prestato servizio in Marina. Ai tempi del congedo dall’esercito, vi rimase per circa tre mesi e vi ritornò più volte e qui si sposò per ben due volte.
Il Messico rappresentava per lui ciò che gli USA non erano già più: un rifugio per uomini di tutti i tipi, dai criminali ai rivoluzionari, dai soldati ai cowboy di frontiera.
Il Messico considerato scarto dell’America, terra da colonizzare. Il Messico come frontiera, terra promessa e nascondiglio: Peckinpah guardava al Messico con un occhio nostalgico, rivedeva la sua gioventù a Fresno, riviveva i momenti a cavallo, la caccia, la vita, il calore nel sangue. Sam diceva sempre: ”Se piaci a un Messicano, quello ti tocca. È diretto, è leale. Oggi negli Stati Uniti siamo tutti pronti a firmare petizioni contro lo sfruttamento degli animali, a fermare la deforestazione, a creare movimenti contro la guerra. Tutti questi che si impegnano in queste crociate poi si scordano di baciare le mogli prima di andare a lavoro e di dare l’acqua alle piante prima di uscire di casa. In Messico, non si preoccupano troppo di salvare l’umanità, ma almeno non si dimenticano di baciare le mogli”.

La violenza esorcizzata dall’iper-violenza

Ancora oggi non mancano critiche alla rappresentazione della violenza tipica dei film di Peckinpah: una delle accuse più ricorrenti è quella che instilla il dubbio per cui la violenza rappresentata sullo schermo giustificherebbe o alimenterebbe quella reale. In un contesto storico e sociale per cui la coscienza dello spettatore medio, quasi assuefatto di fronte agli eventi drammatici propostigli con sempre maggiore spettacolarizzazione dai mezzi di informazione, Peckinpah eliminava gli orpelli di natura mediatica, creando sul set contesti altamente disturbanti di impronta realistica.
L’effetto finale dei lavori di Peckinpah, però, non è pornografico: egli rigetta la pornografia della violenza. La violenza viene esorcizzata da Peckinpah attraverso la sua enfatizzazione: egli pone l’accento su quell’animalità insita nell’uomo che, per lungo tempo, il cinema, specchio della società, ha preferito occultare. In Cane di Paglia, per esempio è l’istinto animale a condurre il protagonista alla soluzione finale, è l’istinto primordiale a portarlo alla salvezza.

Le accuse di filofascismo

Peckinpah non credeva che gli uomini fossero nati uguali: egli era un fiero sostenitore della diseguaglianza intesa come ”guardare le cose con realismo”. Nella nostra società non siamo tutti uguali, abbiamo eguali diritti, ma le due cose non sempre combaciano. Il figlio di un senatore, si domandava, ha le stesse opportunità del figlio di un operaio?
Per via della sua filosofia sociale, una parte della critica cinematografica lo etichettò come filofascista.
Peckinpah non era certo un pacifista e non aveva in simpatia il partito Democratico degli U.S.A., ma non ha mai condiviso il fascismo: al contrario, lo odiava profondamente.
Nonostante i continui attacchi da parte dell’intellighenzia statunitense, Peckinpah non provava un particolare risentimento nei confronti degli intellettuali. David, il protagonista di Cane di Paglia, per esempio, è un intellettuale, è intelletto in azione, è pieno di umanità, ma questa si perde per strada, lasciando spazio all’animalità a cui chiunque, secondo Peckinpah, soccombe.
Sam era un duro, un outsider, un borderliner ed i suoi sbandati lo rappresentavano appieno, essi erano l’emblema della sua politica. Valori come la lealtà, il sentimento forte nei confronti dell’amicizia maschia e cameratesca, la dignità, sono difficilmente riscontrabili in questa forma e in questa misura in altri autori a lui contemporanei. Peckinpah ricorda un pioniere trasportato con forza nel Ventesimo Secolo: era un uomo dell’Ottocento sia dal punto di vista sociale che politico.
Amava le atmosfere degli anni Trenta del Novecento e nutriva una fortissima passione per l’intero Ottocento, anni in cui l’America era diversa, appena nata, in piena costruzione.
Peckinpah non mostrava molta fiducia nelle soluzioni politiche e sociali dell’America contemporanea ed identificava uno dei problemi del Paese nella pubblicità: parlava di quegli anni come dell’inizio di un Nuovo Medioevo. A suo parere, la pubblicità permetteva di vendere uomini ed oggetti, senza fare distinzioni tra le due cose. Peckinpah era sfiduciato, ideologicamente stanco sia dei repubblicani che dei democratici.
”Pensa a quelli che stiamo per votare: Nixon e Wallace, due scimmie assassine arrivate dritte dritte dalle caverne, con la morte negli occhi ma vestite con il vestito buono. E in alternativa cosa abbiamo? Humphrey e Muskie, due senz’anima. Verrà il momento in cui ripenseremo a Truman come il miglior presidente che abbiamo mai avuto. Anche Eisenhower non era male, almeno non era morto. La società non era morta. Oggi gli Americani sono schiavi della televisione, hanno un tasso d’attenzione bassissimo. La maggioranza delle persone torna a casa distrutta la sera, si fa un panino e si mette di fronte ad un televisore. Oggi con la tv via cavo le persone non alzano neppure il culo per andare al cinema. Andare al cinema è condividere qualcosa, ha una funzione sociale. Quando vedi la tv in sala lo fai al massimo con quattro persone ed una di queste è pure rincoglionita. Sembra che il modo in cui si sta sviluppando la nostra civiltà sia stato programmato e la cosa non mi piace”.

La società dei consumi

Peckinpah era un individualista: non amava lavorare alle dipendenze di alcuno, nella lavorazione dei suoi film voleva avere il controllo su ogni dettaglio, dalla sceneggiatura al montaggio, e, viste le sue esperienze giovanili, non amava i produttori, avvezzi a ridimensionare pesantemente i suoi lavori (Sierra Charriba, ne è un esempio lampante).
Con grande presunzione, gli unici film che Peckinpah apprezzava erano i suoi, non sopportava che altri ”figli di buona donna ” facessero un buon lavoro: ”Non ho visto Il Padrino ma dicono che sia bello: odio Coppola per questo”.
A suo tempo, gli piacque molto Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo!! (1971) di Don Siegel, suo mentore e collega, con cui aveva lavorato in diverse occasioni , come ne L’invasione degli ultracorpi (1956) di cui curò la sceneggiatura e in cui fece la comparsa e lo stuntman, anche se i loro rapporti si deteriorano negli anni.
Peckinpah apprezzava Kurosawa Akira e Leone, benché nei film del regista italiano non riscontrasse una memoria reale (cioè, americana) del Far West.
Era convinto, poi, che Ingmar Bergman e Leone avessero quella libertà dai produttori da sempre ricercata, mentre criticava Stanley Kubrick poiché era convinto di averla, ma, a suo parere, soggiaceva alle volontà dei finanziatori.
Peckinpah, in sostanza, non sopportava la società dei consumi. I suoi istinti gli facevano amare le cose semplici e genuine: bere, mangiare in quantità, vestiti comodi, belle donne, viaggi, cacciare erano le poche cose in cui amava investire il suo denaro. ”Un cervo è un’ottima preda da uccidere, quando hai fame, ma è un bellissimo animale, uno splendido essere”.

L’eredità di Peckinpah

Qual è l’eredità del cinema di Sam Peckinpah? Qual è il suo apporto tecnico e narrativo alla storia della cinematografia? Cosa rimane di quel mondo cinematografico costituito da pochi ma essenziali sentimenti, amicizia ed amore in primis, appannaggio di individui dubbi e complessi, in procinto di terminare la loro esperienza terrena, al crepuscolo della loro vita, racchiusi in un branco di amici legati da un amicizia aspra e profonda?
Benché i suoi film siano stati fortemente criticati, l’influenza di Peckinpah sulla generazione di autori che si sarebbe formata di lì a poco è innegabile: Walter Hill, John Woo, Quentin Tarantino non negano l’ascendente esercitato su di loro da Peckinpah, sia in termini narrativi che tecnici. Martin Scorsese ha riconosciuto apertamente l’importanza dei film di Peckinpah nel proprio lavoro, attribuendogli il merito di aver saputo mettere in scena situazioni sgradevoli.
La violenza di Peckinpah è esplicita, esagerata, ma non è mai compiaciuta, come, talvolta, è quella dei suoi successori: Peckinpah ha lavorato sempre di cesello, mostrando, in realtà, solo ciò che riteneva fosse necessario, senza indulgere su dettagli gratuiti, senza assecondare la morbosità dello spettatore. In Voglio la testa di Garcia, per esempio, l’episodio della decapitazione si svolge fuori campo e la testa mozzata viene mostrata solo avvolta in un sacco.
Peckinpah sorvolava sulla manifestazione fisica della violenza: il suo non è cinema gore, non contempla la tortura. Peckinpah, piuttosto, era attento a mostrare gli effetti devastanti della violenza, fisica e psicologica, sulla vita dei personaggi e sui loro sentimenti. A differenza di molti suoi emuli, Peckinpah tentava di instaurare un dialogo morale con il pubblico: la violenza rappresentava un aspetto fondamentale della realtà degli U.S.A. degli anni Settanta, era una faccenda vissuta e troppo seria per riderci sopra.

Filmografia parziale commentata

Sfida nell’alta Sierra(1962), 94′
Il film è pregno di mascolinità ed è caratterizzato dall’onnipresente tema dell’amicizia maschile: la pellicola fornisce un bellissimo spaccato della quotidianità di un tempo ormai perduto, un affresco partecipe sugli usi e costumi del Far West.

Sierra Charriba (1965), 123′
È il terzo film diretto da Sam Peckinpah e fu tra quelli che subirono maggiori tagli in fase di post-produzione. Praticamente, ogni versione oggi disponibile sul mercato non corrisponde in alcun modo con quella originale così come era stata montata inizialmente da Peckinpah e, nonostante ciò, il risultato finale è comunque godibile. Nel film aleggia un’atmosfera di perenne lite, di tensione che sfocia in un incredibile scontro, una guerra fra nuovo e vecchio mondo ormai in declino. Un capolavoro mancato.

Il mucchio selvaggio (1969), 145′
Immenso. Tornano i temi cari al vecchio Sam: l’amato Messico, la violenza, l’uso formidabile del ralenti, il ruolo della donna e dei bambini, l’amore.
Sin dai primi fotogrammi, compare in modo prepotente il ralenti, che raggiunge il suo apice nella lunghissima e strabiliante sequenza della sparatoria.
Uno dei protagonisti silenti del film è il Messico, scarto dell’America, terra da colonizzare: frontiera, terra promessa, nascondiglio.

La ballata di Cable Hogue(1970), 121′
Il suo quinto film da regista è forse quello a cui Peckinpah rimarrà sempre legato per via della poetica e della dolcezza intrinseca.
La Ballata è uno dei pochi film di cui Peckinpah si dichiarò apertamente soddisfatto ed il risultato finale, infatti, è unico: si tratta di un insolito western agrodolce e romantico,nel quale sparatorie e spargimenti di sangue sono praticamente assenti.
La critica distrusse letteralmente il film, senza apprezzare la maestria con cui il regista riuscì a rappresentare una fase storica precisa, un momento di transizione nella storia degli States, adottando il punto di vista dei bifolchi dell’epoca. Sublime, in questo senso, l’entrata in scena di un’automobile, scena ricca di emozioni, in bilico fra lo stupore e la paura nei confronti del ”demone meccanico”.

Cane di paglia (1971), 118′
Il western si sposta nella quotidianità. Il film è un doloroso tira e molla: alcuno è disposto a subire perennemente piccoli o grandi soprusi. Emerge l’animalità umana. All’uscita di Cane di Paglia, Peckinpah venne accusato di misoginia, per via della rappresentazione della moglie del protagonista.

L’ultimo Buscadero (1972), 100′
Si tratta di un ”western camuffato”.
Il protagonista è Jr.Bonner (Steve McQueen), un cowboy da rodeo che cavalca senza sella. Quello che compare nella pellicola è il rodeo inteso come ultimo residuo dell’identità del Far West. Della tradizione dei cowboy, è rimasto solo questo, una semplice gara, la spettacolarizzazione di un mondo ormai defunto e di una perduta virilità a cavallo.
Il film non è tra i migliori di Peckinpah, ma funziona, svolge un lavoro onesto, intrattiene e offre uno Steve McQueen in gran spolvero. A suo modo, è un film delicato, la violenza è completamente assente e sviluppa dei quesiti sul passato/presente/futuro dei vari personaggi, davvero ben caratterizzati. Ad eccezione del fatto che la terra del sogno rappresentata dal Messico viene sostituita dall’Australia, la new land of opportunities, nel film sono presenti più o meno tutti gli elementi principali dei film di Peckinpah.
Jr. Bonner è un antieroe al crepuscolo della carriera: riuscirà a ritrovare la gloria, la fama e la sua autostima?

Getaway! (1972), 118′
Incipit veloce, battute secche. Ancora Steve McQueen in un film articolato in tre sezioni principali: l’evasione, la rapina, la fuga in Messico.
Cliché sulla donna a parte, il film è un Signor film. Cinema con la “C” maiuscola.

Pat Garrett & Billy the kid (1973), 106′
Con Pat Garrett & Billy the kid, si vola nuovamente verso il genere western, superandolo. Il film ha una colonna sonora firmata Bob Dylan che, oltre a curare la soundtrack, fa parte del cast prepotentemente invaso dall’attore feticcio del regista Kris Kristofferson (Billy the Kid) e da James Coburn (Pat). Si tratta di una triste storia di amicizia fra due dinosauri appartenenti ad un’era che sta scomparendo, quella del Far West. Il film è ambientato in Nuovo Messico, il West è in procinto di diventare un mero ricordo. Tempi che cambiano, tempi che rimangono uguali. Tornano i temi che ormai conosciamo bene: il ruolo emblematico della donna, i bambini che assorbono la violenza dell’ambiente in cui vivono, il Messico luogo di frontiera, rifugio ed alter-ego dell’America. Uno dei più bei film, forse il migliore, di Sam Peckinpah.

Voglio la testa di Garcia (1974), 112′
Cosa si è disposti a fare per amore e per una vita migliore, più felice ? La strada per raggiungere questo fine sarà durissima.
L’antieroe della pellicola è interpretato da Warren Oates, altro attore feticcio di Peckinpah. Tra i personaggi, compare una coppia di cowboy omosessuali e, ancora una volta, Peckinpah precorre i tempi e dimostra una originale sensibilità nel rappresentare una coppia a dir poco struggente, alla ricerca del proprio paradiso in terra, desiderosi di serenità.
Il film si chiude con un fermo immagine, la bocca di un mitra e la scritta: ”Directed by Sam Peckinpah”. Un silenzioso ma violento grido di rabbia.

Killer Elite (1975), 122′
Ovvero, quando Tom Hagen (Robert Duvall) e Sonny Corleone (James Caan) di Coppola si incontrano in un film di Peckinpah.
Nel film, c’è una battuta bellissima fra James Caan e Burt Young, detta durante la resa dei conti fra due antagonisti cinesi, in una San Francisco in pieno clima anni Settanta :
”Non ho mai capito la questione dell’onore… E, poi, perché le spadone ?”
”Forse affettano meglio il loro onore”.
Killer Elite è un film frutto del melting pot tipico degli U.S.A. Il ritmo del film è irregolare, l’atmosfera è cupa, ed ha un finale notevole, ambientato in un porto abbandonato, in mezzo a vecchie navi da guerra in disuso. Nasce nel filone dei film spionistici, strizza l’occhio alla saga di James Bond.
Quello di Killer Elite è un universo aggressivo e regressivo nel quale bene e male si fondono, tutti tradiscono tutti, in una continua involuzione sociale.
Non si tratta di un film tecnicamente elaborato, ma è comunque piacevolissimo, con momenti d’azione incredibili e scene particolarmente divertenti, nella quale sono presenti ninja, acrobazie folli, esplosioni, sparatorie, organizzazioni segrete, omicidi politici, ralenti.

La croce di ferro (1977), 132′
Le riprese del film si svolsero a Zagabria, Monaco e Porto Rose ed ebbero uno sviluppo travagliato, soprattutto per via delle ristrettezze imposte dalla produzione. Nonostante le attrezzature limitate e l’impreparazione del cast (le comparse jugoslave sorridevano alla telecamera), Peckinpah diresse un film notevole: il set non è più il West americano, ma il fronte russo e, per protagonisti, ci sono i soliti personaggi disillusi, né buoni, né cattivi, membri di un reparto dell’Esercito Nazista. Il conflitto li ha logorati, gli eventi portano quelli che potrebbero essere etichettati come ”cattivi” (poiché nazisti) a rivalutare le proprie posizioni, ma essi non vogliono vincere, desiderano solo che la guerra finisca.
La croce di ferro non è solo un film di genere bellico: in esso, c’è spazio per i sogni dei protagonisti. Vengono affrontati temi inediti per il genere, come gli shock da conflitto, l’omosessualità, la denuncia nei confronti di un regime dittatoriale, la critica a principi non più condivisi da una parte del mondo militare. La croce di ferro veicola un messaggio sensazionale: è la guerra vista dagli occhi di un soldato.
Narra la leggenda che, sul finire delle riprese, Peckinpah fece finta di preparare l’occorrente per le scene successive. Non voleva che il film finisse: la sua era un’opera d’amore e Sam pianse quando la concluse.

Convoy – Trincea d’asfalto
Tutto nasce da una canzone country di C. W. McCall (video: http://bit.ly/1kbSo5G), poi inclusa anche nella colonna sonora del film.
Qui, il camion è un surrogato dei cavalli ed il film è nient’altro che un western moderno dove gli antieroi non sono cowboy di frontiera, ma camionisti dai modi rudi.
I temi sono quelli ricorrenti nel cinema di Peckinpah: la fuga verso il Messico, le donne, la violenza e personaggi, sovente vittime degli eventi, non identificabili come buoni o cattivi.
Il film ha un tono quasi scanzonato, ma è caratterizzato dai tocchi autorali di Peckinpah: il ralenti è ancora una volta il suo prediletto.
La pellicola risulta piacevole: non si tratta del miglior Peckinpah, ma si fa apprezzare decisamente.

Osterman Weekend (1983), 83′
L’ultimo film del regista non è tra i più brillanti di Peckinpah. Sicuramente, risente del taglio di oltre venti minuti imposto dai produttori che, anche durante la lavorazione, esercitarono continue pressioni sul regista.
Il film costituisce un unicuum all’interno della filmografia di Peckinpah: esso anticipa le atmosfere e le convulsioni horror di Videodrome (1983). Come nella pellicola di David Cronenberg, la realtà virtuale è un demonio che si insinua nella mente dell’individuo come un virus. Lo schermo televisivo diventa il vero occhio dell’uomo, l’unica cosa di cui egli si fida: è nient’altro che la sua anima.
La vicenda raccontata è torbida, oscura: fino alla fine del film, non risulta mai chiaro chi viene controllato e chi esercita il controllo, la preda diventa predatore, le amicizie virili sono distrutte, gli eroi sono spaesati, gli spiati diventano spie. Ciò che emerge prepotentemente dalla pellicola sono l’odio di Peckinpah nei confronti del potere, l’esplosione della bestialità umana, i contrasti fra individuo e collettività.
Non è il degno finale di una carriera insuperabile, ma è comunque un film godibile.

Contributo realizzato in collaborazione con Don Max
Dedicato al dott. Maurizio Zinni, ricercatore e tecnico di laboratorio presso il Laboratorio di Ricerca e Documentazione Storica Iconografica del Dipartimento di Studi Internazionali, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli studi Roma Tre, assistente de Storia e Istituzioni dell’Africa, nonché pusher personale di film e libri.
Grazie, probabilmente non avrei mai conosciuto il regista se non fosse stato per Lei.

1 commento

  1. Unospettatorequalunque / 2 Maggio 2014

    Articolo interessantissimo, letto tutto d’un fiato. Sam Peckinpah è uno dei registi che mi piacerebbe approfondire e sicuramente la filmografia mi sarà molto utile :).

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