Recensione su Operazione Zero Dark Thirty

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Tra estetica ed etica / 16 Agosto 2015 in Operazione Zero Dark Thirty

Asciutto, mai retorico, realistico: film come questo ci mostrano, per contrasto, quanto siano lontane dalla realtà le usuali drammatizzazioni hollywoodiane (e quanto, forse, la nostra percezione della realtà sia talvolta condizionata da quelle stesse drammatizzazioni).
La trama è essenziale, procede diretta e sistematica verso lo scioglimento finale senza distrazioni e sottotrame, rispecchiando l’ossessione della protagonista («Non ho fatto nient’altro», ammette con imbarazzo alla domanda di un superiore). La tensione della caccia monta anche nello spettatore, e le scene dell’assalto tengono col fiato sospeso, pur conoscendo benissimo quale sia stato l’esito della vicenda.
Le interpretazioni: Jessica Chastain non mi convince del tutto come attrice – un’impressione rafforzatasi dopo averla (ri)vista in Interstellar e in The Help. Mi pare che tenda sistematicamente a calcare troppo la mano, e che una maggiore sobrietà servirebbe meglio i suoi ruoli. Detto ciò, ammetto però volentieri che regge benissimo sulle sue spalle quasi l’intero film, con un carisma indiscutibile. Jason Clarke è invece senza macchia nel ruolo inquietante di un torturatore che si muove a zig-zag sul confine tra sadismo e umanità.
Poco simpatica la sottovalutazione dell’importanza dell’amministrazione Obama nella vicenda. Tutti gli ordini, ovviamente, venivano dal Presidente, e penso che ciascuno ricordi la scena del governo che segue su un monitor l’assalto alla casa di Bin Laden. Ma l’uscita del film coincideva più o meno con le elezioni presidenziali del 2012, ed è comprensibile che gli autori abbiano voluto evitare di vedersi appiccicata l’etichetta di propagandisti.
Un’ultima parola a proposito delle torture. La regista e lo sceneggiatore sono stati giustamente criticati per aver attribuito (più o meno direttamente) all’uso della tortura il successo nella caccia a Bin Laden, mentre nella testimonianza quasi unanime dei protagonisti questo genere di interrogatori sarebbe stato invece inutile. Questo rappresenta un’ombra morale sul film; qualcuno ha paragonato la Bigelow a Leni Riefenstahl – un’esagerazione, ma non del tutto gratuita. Quello che posso dire è che la regista, nelle sue dichiarazioni, sembra sincera nel ritenere essenziale il contributo della tortura, e che è forse troppo facile evitare di prendere posizione sul problema morale trincerandosi dietro il semplice «la tortura non funziona»: gli autori del film, se non altro, non hanno eluso la domanda. E la loro rappresentazione degli interrogatori non disumanizza i prigionieri, non li trasforma in mezzi per un fine loro estraneo; tutt’altro. Almeno in questo, l’estetica e l’etica del film si danno la mano.

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