Seguendo lo schema del precedente horror del regista, l’indagine solitaria e osteggiata dalla popolazione locale e alla presenza di un personaggio negativo appartenete al clero, il film si inserisce in un altro sotto-filone molto popolare in quel periodo, quello degli zombie. Anche in questo caso però l’approccio a una moda del momento viene effettuato in modo del tutto originale. Avati infatti tratta l’argomento morti viventi in maniera molto diversa rispetto alle popolari pellicole di Romero o di Fulci, concentrandosi più sull’intreccio narrativo che che sullo shock visivo dell’attacco zombesco. La tensione del film è generata dall’atmosfera che il regista riesce a evocare anche nell’inconsueta location della riviera romagnola e non da scene particolarmente sanguinolente.
L’idea del motore dell’azione del film, la vecchia macchina da scrivere il cui nastro rivela misteriosi frasi, venne al regista dal fatto realmente accadutogli dell’acquisto di una macchina da scrivere usata all’interno della quale aveva ritrovato i rendiconti contabili di un dentista.
La vicenda richiama in qualche modo quella del romanzo di Stephen King “Pet Sematary”, ma è improbabile che un autore abbia influenzato l’altro, visto che romanzo e film uscirono lo stesso anno (“Zeder” in america arrivò addirittura due anni dopo). Una coincidenza e niente più che sembra confermare il modo di dire secondo cui le idee fluttuano nell’aria e può succedere che vengano colte nello stesso momento in diverse parti del mondo. A questo proposito c’è da ricordare anche il romanzo di Tiziano Sclavi “Dellamorte Dellamore”, uscito nel 1991 sull’onda del successo di Dylan Dog, ma scritto anch’esso nel 1983 (mentre l’omonimo film tratto dal romanzo vide la luce nel 1994), in cui è presente un cimitero in grado di risvegliare chiunque vi venga sepolto.
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