Sentieri selvaggi / 15 Dicembre 2016 in Yellowbrickroad

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Una troupe, telecamere in spalla, parte alla volta di Friar, per scoprire cosa spinse, sessant’anni prima, l’intera cittadina a decidere di attraversare lo yellowbrickroad, trovando in quello stesso sentiero la morte. E, fino a qui, nulla di nuovo, non si tratta certo del primo film che parta da un presupposto simile. Yellowbrickroad, però, non si inserisce semplicemente in questa tradizione cinematografica, ci entra dentro, si insinua in quegli stessi film da cui trae spunto. Il “sentiero giallo” non è altro che una lunga pellicola, infinita, inesorabile. Un sentiero che, non a caso, ha lo stesso nome del titolo, perché è il film stesso, il quale film è il cinema tutto. Un viaggio che, passando da Il Mago di Oz, arriva a pellicole epidermicamente più affini, quali The Blair Witch Project e Picnic Ad Hanging Rock. A Yellowbrickroad la natura non può che avere le sembianze, anzi la voce della musica. Una musica non diegetica, ma camuffata da diegetica. Una musica che angoscia e che, nell’angoscia, fa impazzire tanto i personaggi quanto noi spettatori, a tal punto che i confini dei due ruoli diventano via via più labili. E, mentre lo yellowbrickroad, cioè il film continua ad uccidere, ci si rende conto che non resta da fare altro che prendere coscienza della propria duplice veste di personaggi e spettatori. L’unico modo, quest’ultimo, per conoscere tutti i possibili finali. Regista permettendo.

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