Se Aladdin fosse ambientato in Cina / 24 Luglio 2021 in Il drago dei desideri

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Forse, è un po’ inclemente e tranchant definire Il drago dei desideri come una specie di Aladdin cinese, ma… così è. Il drago rosa e logorroico è una versione asiatica del Genio blu della Disney (con cui, fra le varie cose, condivide anche l’incapacità di far tornare i morti dall’oltretomba) e Din è un Al fatto e finito (proprio ora, mi viene in mente che il Genio gli domanda-va perfino: “Come ti devo chiamare? Al? Din?”, ecco), con scarsi mezzi economici e tante risorse emotive e intellettive.
Il ritmo generale del film è buono, il character design non sprizza fantasia da tutti i pori ma è godibile, però la storia è tanto trita e prevedibile negli sviluppi da far sperare in un rapido risolvimento (cosa che non accade e che, anzi, contempla anche un finale dilatato, come, ultimamente mi pare, troppo spesso accade, soprattutto nei film di animazione, vedi Ralph spacca Internet della Disney o La ragazza del tempo di Shinkai).

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