18 Dicembre 2014 in Wir sind jung. Wir sind stark.

Burhan Qurbani, giovane regista di origini afgane, si inserisce con il suo secondo lungometraggio (dopo “Shahada”, premiato alla 60° edizione del Festival di Berlino nel 2010), “We are young, we are strong”, nella rosa dei migliori titoli della nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, ricordando uno degli episodi più drammatici di xenofobia nella storia tedesca contemporanea. Nell’agosto del 1992, all’est del paese covava una crescente atmosfera di astio, strettamente collegato alle ideologie che avevano impostato le basi della tragedia del secondo conflitto mondiale: tremila neonazisti incendiano un centro d’accoglienza che ospitava centinaia di rifugiati vietnamiti. Era il sintomo di un germe furioso ancora presente all’interno della nazione tedesca, ma veicolava anche una rinnovata forma di intolleranza, specchio di una profonda crisi morale ed esistenziale nella società, che si riflette nelle abitudini di alcuni dei personaggi principali del film.

La frase pilota della linea narrativa di “We are young, we are strong” è stata individuata nelle parole di Antonio Gramsci, antecedenti alla catastrofe della seconda guerra mondiale: “Il vecchio mondo muore, e il nuovo non può nascere: oggi è il tempo dei mostri”. E quei mostri sono i membri della banda di Stefan, ultimi “rebels without a cause”, che scatenano le proprie veemenze senza una concreta consapevolezza. È ciò che emerge in primis da tutti gli aspetti della pellicola: il regista punta su scelte stilistiche di significanza rigorosa, che conducono con classe sia la parabola narrativa in progressiva crescita, sia gli attori totalmente immersi nei loro ruoli, lasciando da parte l’atto recitativo cosiddetto di “finzione”. Qurbani ricerca una dimensione umana laddove essa appare assente, guidando la cinepresa in inseguimenti costanti e vorticosi dei volti e degli sguardi e tracciando un’analisi non priva di empatia.

In aiuto giunge anche la scelta fotografica di variare la colorimetria, dalla cupezza del bianco e nero alla nitidezza della gamma cromatica. Il risultato è che non emergono né eroi né antieroi: ogni singolo personaggio porta con sé un bagaglio del tutto vario e personale fornitogli dalle proprie esperienze, mentre la presunta fermezza dei loro ideali lascia spazio alle insicurezze dello smarrimento psicofisico nel ciclone della violenza. Lo spettatore percepisce tutto ciò in maniera tangibile e partecipa all’allontanamento dello sguardo registico, che prende una posizione meno netta e più distaccata rispetto ai fatti, così che l’opera possa acquisire un nuovo senso del ritmo, ancor più cadenzato. Nessuna accusa, nessuna denuncia: soltanto la rappresentazione della realtà, e questo anche grazie ad un cast giovane e di prodigioso talento.

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