Recensione su Dies irae

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22 Agosto 2013

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Penso che questo film meriti un recensore ben più abile di me, ma ahimè, temo dovrete accontentarvi.
Dreyer in Dies Irae mette in scena uno splendido affresco della Danimarca del XVII secolo, raccontando la storia di Anne, giovane fanciulla innamorata di Martin, figlio di primo letto di suo marito Absalon, un vecchio pastore che salvò la madre di lei, accusata di stregoneria, dal rogo. Anne, resasi conto di possedere poteri magici, provoca la morte di Absalon (molto “aiutata” dallo stato fisico e mentale dell’uomo) per amore di Martin, ma durante il funerale la madre di lui, Merete, accusa Anne di stregoneria. Quest’ultima, vedendo che anche il suo amato è convinto della sua colpevolezza, si autoaccusa con coraggio esemplare, condannandosi al rogo.
Tratta da una pièce teatrale, Dreyer come suo solito ha modificato molti suoi elementi per adattarla meglio alle sue esigenze, incentrando il film su due temi a lui molto cari: per primo la storia di Anne, privata della sua giovinezza e sposata ad un uomo che non ama, una donna “i cui normali istinti sono soffocati, schiacciati da una società irrigiditi nei pregiudizi e nel formalismo.” Pregiudizi che sono incentivati dalla chiesa e dalle sue rigide regole, causa principale del bigottismo e dell’austerità che permeavano quei tempi. Esemplare è la scena del processo alla presunta strega Marte Herlofs nel primo atto: trasformare le dicerie in certezze, rendere le persone conformi alle proprie direttive anche tramite la tortura, questo era il compito della chiesa, un’inesorabile annullamento dell’individuo in favore d’una società vuota, senza vita. Anne però non ci sta, lei è un essere traboccante di vita rinchiuso in un ambiente troppo austero per lei, circondato da persone che la disprezzano (la madre di Absalon) o che non la capiscono (Absalon), che dona tutto se stesso in un amore folle e ingenuo col figlio del pastore e che al termine del film, disillusa anche da lui, non accetta di piegarsi al volere della società, preferendo affrontare il rogo pur di rivendicare la sua individualità. Dice bene il Morandini, “Per il regista danese la più terrificante sequenza musicale della liturgia cristiana diventa un inno alla vita e alla libertà contro il fanatismo, l’intolleranza, la cecità spirituale degli uomini.” La scena finale del film è l’accusa finale che riassume quanto detto nel film: l’ombra di una croce che si trasforma inesorabilmente in una croce di cimitero. Il significato è chiaro: la chiesa non conduce all’aldilà, porta solo alla morte, oltre il cimitero non c’è nulla.
Magnifiche le caratterizzazioni dei personaggi principali, descritte con notevole profondità psicologica: oltre ad Anne c’è Absalon, pastore codardo sotto il giogo della madre, un uomo che si tormenta per aver peccato di lussuria sposando una ragazza troppo giovane salvandone la madre presunta strega, andando contro i solidi valori della sua chiesa (il corpo appartiene alla terra e l’anima a Dio); Merete, la madre del pastore, rappresentazione vivente della chiesa con tutti i suoi mali; infine Martin, colui che sembra provare amore per Anne ma che alla fine si rivela come il padre, un codardo che si sottomette al volere di Merete, il volere della chiesa.
A differenza di molti altri suoi film qui Dreyer fa uso maggiore della cinepresa, concedendosi molti movimenti di camera e due splendidi piani sequenza, uno nella sala torture nel primo atto e l’altro nella scena del funerale, riprendendo i chierichetti intonare il canto funebre mentre attraversano la stanza, ripresi dal punto di vista della bara. Notevole anche la fotografia, con un uso sopraffino del contrasto tra neri e bianchi, in particolare nella figura di Anne, la quale nella scena del funerale (e nello splendido primo piano finale) si presenta con una cappa bianca, unica tra tutti, quasi a volersi identificare come colpevole. La minuziosità e la perfezione artistica di Dreyer non hanno tradito neanche stavolta, non per niente è stato più volte accreditato come uno dei più grandi pittori scandinavi per la bellezza delle sue opere.
Piccola curiosità: il film è stato girato nel 1943, anno in cui la Danimarca era sotto il giogo nazista. E’ facile notare un paragone tra gli ebrei ed Anne: entrambi pagano con la vita il semplice fatto di essere nati, i primi come ebrei, la seconda come figlia di strega. D’altro canto anche l’Inquisizione è facilmente riconducibile ai nazisti. Dreyer con questo film ha voluto anche rappresentare la situazione politica del suo paese e dell’Europa in generale, seppur in maniera sottile e non di immediata comprensione.
Concludendo, penso di non essere granchè in torto nel definire Dies Irae uno dei migliori film della storia del cinema, un’opera d’arte come ben poche altre, e mi provoca molto dispiacere vedere quanto sia poco noto Dreyer ai più, spero che le mie recensioni sui suoi film servano ad aumentare la sua visibilità.

2 commenti

  1. paolodelventosoest / 24 Settembre 2013

    Lo sto visionando con calma, pezzo per pezzo. Film glaciale e tagliente come un rasoio.

    • kallen / 24 Settembre 2013

      Mi fa molto piacere che tu lo stia guardando, iniziavo a temere di essere quasi l’unico ad interessarsi del povero Dreyer 😀

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