M / 4 Marzo 2021 in Vitalina Varela

L’unico neorealismo oggi possibile, fatto di inquadrature fisse su personaggi quasi immobili, come fotografie in lento divenire, fatto di ombre che si proiettano lugubri e infernali su ogni cosa, fatto di silenzi che sfondano i timpani, fatto del sottoproletariato di oggi, i migranti che vivono in catapecchie alla periferia delle metropoli europee, che dormono in stazione, che rubano nei supermercati.

Vitalina Varela è una donna di 55 anni capoverdiana, da 25 anni separata fisicamente dal marito andatosene in Portogallo in cerca di una fortuna mai arrivata. Quando finalmente anche Vitalina arriva a Lisbona è troppo tardi, il marito è da poco morto, sepolto tre giorni prima. Non si arrende questa donna silenziosa e piena di dignità, che preferisce parlare da sola che parlare con gli altri, decide che la sua vita dovrà essere qui, alla ricerca del passato scellerato del marito, in un Portogallo (un’Europa) decaduto e senza vitalità (quanta ironia nel nome ossimoro Vitalina, peraltro vero nome dell’attrice protagonista), si unisce alla comunità capoverdiana senza soldi e senza speranza, una comunità che intimamente odia (perché le ricorda il marito che la abbandonò e le nefandezze che questi compì in Europa), ma con cui infine si riconcilierà. In attesa di miraggi, perché di realtà concrete non ce ne possono essere.

Giocato su una straordinaria attenzione ai chiaroscuri (bellissimi) e su un’indagine in costante rinnovamento di questi corpi in decomposizione eppure statuari, Vitalina Varela non è solo il capolavoro di Pedro Costa (superiore anche ai magnifici Ossos e Cavallo Denaro), ma senza dubbio anche uno dei film fondamentali della nostra epoca.

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