une nouvelle danse macabre / 17 Aprile 2013 in Visage

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Il Louvre commissiona questa co-produzione Francia-Taiwan per ospitare le riprese di un lungometraggio di Tsai Ming-Liang. Il maestro malesiano ne approfitta per omaggiare la nouvel vaugue e in particolare il Trauffaut de La Nuit américaine, e per portare una riflessione, quasi un tirare le somme, a tutto il suo cinema e al concetto di cinema in generale.
Il film narra di Kang e della sua troupe intenti a portare a termine tra mille contrattempi l’adattamento cinematografico della Salomé di Oscar Wilde.
Come già nel meta-cinematografico Goodbye Dragon Inn, anche qui la rappresentazione del cinema è una rappresentazione di morte, di un realtà onirica popolata di fantasmi che si muovono all’interno di inquadrature inermi, oggetti giacenti che rigettano la vita. Come nella scena in cui uno sperduto Jean-Pierre Léaud, eterno bambino imprigionato nella decadenza di una carne apparente, si perde in un labirinto di specchi nel bosco innevato; qui fa la sua comparsa un cervo, simbolo della natura e della vita, che invece di concludere la scena scappa lontano dal set, dal film stesso, da quel luogo di morte; e infatti verrà ritrovato solo alla fine della pellicola, ancora intento a sfuggire all’ultima inquadratura.
D’altronde un gioco di specchi è anche il rimando all’arte in generale. Un cortocircuito di citazioni che mischiano il mito biblico, la pittura (rappresentata dall’enigmatico e astratto San Giovanni Battista di Leonardo, evocato nella scena della inutile fuga di Leud dal louvre, da un tombino proprio sotto il quadro rinascimentale, come a significare che l’attore oramai non è niente altro più che un’immagine incorniciata, un frame immobile), teatro, danza (coreografate negli stacchetti musicali con i magnifici vestiti dello stilista Christian Lacroix), cinema e meta-cinema in una trascendenza putrescente che ha come unica meta l’eterna ripetizione, che è finitudine, rappresentata dalla morte della madre di Kang che ricompare nel film sotto forma di spettro, per poi abbandonare la pellicola anche lei insofferente, esausta di avere ancora un ruolo davanti alla m.d.p (macchina da presa che compare nell’inquadratura solo una volta, sotto forma di ombra)
E ritroviamo i personaggi vagare tra gli stretti corridoi, i sotterranei, in mezzo alle fogne del museo risucchiati in un vortice in cui finzione e realtà hanno perso di senso. Per cui la tragedia non può che finire con la danza macabra, sensuale, della bella Salomé (una perfetta Laetitia Casta, anche lei intenta ad una inutile fuga dalla luce, rappresentata dalle estenuanti scene in cui oscura con il nastro isolante tutte le finestre del set), che al suono del ferro dei ganci e della plastica pesante di uno scannatoio, decapita il regista per poi baciare le sue labbra spente.
Il film nella prima parte si concede a squarci onirici quasi comici tipici del regista, come nella esilerante scena della perdita d’acqua in cucina, per poi sprofondare sempre più in un clima lugubre che non lascia scampo. E’ facile pensare ciò sia dovuto alla scomparsa della madre di Tsai Ming-Liang durante le riprese (omaggiata sui titoli di coda), messa in scena anche nel film. Mai come in questo caso il cinema del regista di Kuching si è mischiato con la sua stessa vita, con la sua stessa arte. Creando forse una scissione che assomiglia ad una crisi, dal momento che questo film del 2009 è l’ultimo girato da Ming-Liang e pare che all’orizzone non ci sia nulla di nuovo. Nulla di vivo.

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