Capolavoro senza tempo / 8 Ottobre 2020 in Una storia di Tokyo

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Il trascorrere inesorabile del tempo cambia e continuerà a cambiare il mondo; cambia la società, cambiano le persone, cambiano i rapporti, è un processo naturale ed inevitabile, quasi sempre irreversibile.
In quello che è in tutta probabilità il suo grande capolavoro Ozu non si limita ad offrirci un malinconico e quantomai lucido affresco sul delicato momento storico del Giappone post-bellico, ma pone un sensibile accento sulle dinamiche familiari, da sempre oggetto del suo interesse, in particolare sull’incomunicabilità tra le diverse generazioni e sull’instabilità della famiglia nella società moderna.
Il ritmo narrativo è lento, compassato, quasi contemplativo, le inquadrature prevalentemente fisse con rarissime eccezioni, lo stile austero ed essenziale al pari del linguaggio.
Dalla pellicola si può facilmente scorgere un senso di amarezza e rassegnazione latente dovuto alla triste constatazione dell’egoismo e dell’indifferenza dei figli nei confronti degli anziani genitori giunti in visita nella metropoli, ma senza mai voler scadere nella banale condanna di tipo predicatorio; non vi è infatti alcun intento didascalico o moralistico poichè la visione del regista appare per lo più improntata ad una serenità e ad un pudore di fondo che permettono di accettare con mirabile stoicismo l’abbandono e persino la morte; consapevolezza che nasce dalla profonda presa di coscienza che questo è il solo modo in cui l’esistenza può andare avanti, con cui il nuovo rimpiazza il vecchio in uno spietato quanto necessario divenire eracliteo in cui tutto non può che proseguire ed evolversi.
Cartina tornasole di questa inconfutabile e triste verità è il personaggio della candida nuora Noriko, che nella sua grande umanità risulta quasi una persona fuori dal contesto, lei vedova di guerra, condannata a non vivere il futuro e neanche il presente, vive nel ricordo di promesse mancate, nella quieta sfera della memoria, la vita non ha potuto corromperla, al contrario il dolore l’ha resa più sensibile e solidale. Quello di Noriko è senz’altro uno dei personaggi chiave in cui Ozu cristallizza la sua poetica; se da un lato lo sguardo del regista appare rassegnato e clemente verso l’ineluttabile avanzare del tempo, dall’altro si può scorgere una sorta di critica “impotente” alla modernità, dove le persone hanno sempre di più ma sono disposte a dare sempre meno, dove la vita scorre ad una velocità diversa imponendo nuove priorità, dove le nuove generazioni sembrano aver perso le proprie radici ed alcuni dei valori basilari; ma sarebbe fuorviante se non sciocco cercare a tutti i costi un colpevole da additare, ammesso che ci sia, e non è sicuramente questo l’intento del regista che, attraverso lo sguardo dell’anziano Shukichi, scruta imperturbabile senza davvero schierarsi, è una constatazione più che una critica vera e propria, non resta quindi che prendere atto del tempo che fa il suo corso e che plasma nuovi esseri umani, figli di una società con premesse e prospettive rinnovate, imperfetti al pari dei padri e dei fratelli che si son fatti la guerra, vittime anch’esse più o meno consapevoli di un diverso tipo di disumanizzazione.

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