Recensione su Un cane andaluso

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Un chien andalou / 20 Aprile 2019 in Un cane andaluso

Natale 1927, Figueroa. Luis Buñuel trascorre le festività con l’amico Salvador Dalì. Una mattina, si confidano reciprocamente un sogno: l’uno ha immaginato di ferire ad un occhio una persona, l’altro di essere stato ricoperto dalle formiche. In sei giorni, i due amici stendono la sceneggiatura di Un cane Andaluso.
“Buñuel e Dalì accettano le prime immagini che vengono alla mente, rifiutando sistematicamente tutte quelle che possono venire dalla cultura e dall’educazione” [1]. Il film nasce dall’applicazione della tecnica surrealista dell’automatismo psichico, “dettato dal pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale” [2]. Il meraviglioso è la chiave per conquistare l’inconscio ed il sogno conduce ad una sur-realtà, superiore alla realtà percepita: le teorie freudiane sull’onirico, l’esaltazione sociale legata alla Rivoluzione d’Ottobre, il marxismo e la passione per l’amour fou fomentano le menti dei due artisti.
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Fattosi aiutare economicamente dalla madre, Buñuel vive un breve periodo di bagordi e poi inizia le riprese, a Billancourt. Dalì si farà vivo solo per aggiungere un po’ di pece al pelo degli asini inseriti nella penultima scena. Nessuno ha idea di quale sarà il montaggio finale del film.
La prima proiezione avviene a Parigi (1929), presso lo Studio Ursulines, insieme a Le mystère du Chateau de dès di Man Ray: è un successo ed uno scandalo.
“Ci troviamo davanti al primo film della storia del cinema che, contrariamente ad ogni regola, è stato realizzato affinché lo spettatore medio non possa sopportarne la visione. (…) E’ il primo film non attraente. Questa volontà di offendere era talmente spinta che passò il suo scopo. I borghesi, notoriamente masochisti, applaudirono dopo aver visto quel film che disturbava la loro digestione” [3].
Un cane andaluso è “il film antinarrativo per eccellenza” [1] che funziona per associazioni (es. occhio-rasoio/ luna-nuvola), perfezionando il modello già sperimentato da Breton e Soupault negli scritti Les champs magnétiques (1919), e che, rifiutando lo spirito naturalista, codifica la cosiddetta arte oppositiva, grazie alla quale lo spettatore viene posto in attesa, per essere poi stupito con eccessi fuori dal comune pensare.
Terminato il film, Buñuel e Dalì dichiararono che “chi lo avesse trovato bello e poetico non poteva che essere un imbecille” [1].

BIBLIOGRAFIA su Luis Buñuel

[1] Giovanni Valerio, Invito al cinema di Buñuel, ed. Mursia, 1999
[2] André Breton, Manifestes du Surréalisme. Idées, ed. Gallimard, 1969
[3] Ado Kyrou, Le surrealisme au cinéma, ed. Le Terrain Vague, 1963
[4] Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, ed. SE, 1991

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