Recensione su To the Wonder

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Malick è pronto per gli spot dei profumi / 21 Aprile 2013 in To the Wonder

Questo è un film in cui tutto vola, ondeggia, volteggia, danza, si inarca, gira. Gira la cinepresa, girano il venticello, le foglioline, gli uccellini. Ma più di tutto girano gli zebedei degli spettatori inermi.
Avete presente le pubblicità dei profumi? Sì, quelle rigorosamente in bianco e nero, col bel tenebroso e la bella irraggiungibile, nudi dalla cintola in su, con indosso solo un paio di jeans, bagnati fino ai capelli, che si strusciano languidamente e si procurano profonde abrasioni cutanee su degli anonimi scogli? Ecco, prendete uno di questi spot, aggiungeteci il colore, moltiplicate la sua durata per 200 volte e otterrete To The Wonder. Credo che lo spot che più assomiglia a questa pellicola si possa rintracciare in quella pacchianata di Chanel con Brad Pitt (non a caso attore in The Tree Of Life dello stesso Malick) che, tirato di tutto punto per nascondere l’incipiente calvizie, pronuncia con voce afona frasi sconclusionate ma dal vago sapore aulico che si potrebbero riassumere così: “Comprate sto profumo se volete invecchiare bene come me.” Non so voi, ma ogni volta che lo passavano in tv io ridevo come un pirla, era qualcosa di davvero ridicolo. Anche To The Wonder è pieno zeppo di voci fuori campo che sentenziano frasi nominali sulla vita, l’amore, il cosmo e che, a giudicare dallo stato avanzato di raucedine, appartengono con ogni probabilità a fumatori accaniti che hanno appena subito una tracheotomia.
Il paragone con l’ambiente pubblicitario non è casuale. La sensazione che si ha durante tutto il film è che Malick non si limiti a mostrare delle cose da cui lo spettatore dovrebbe trarre delle emozioni, ma che si sbracci, si prodighi fino all’esaurimento per convincerci, per venderci delle emozioni a tutti i costi. “Ehi voi, non vedete quanto è bello tutto questo? Non vedete che ho ripreso 50 volte in 10 minuti la luce del sole che filtra tra gli alberi? Non vedete quanto grano mosso dal vento? E senza neanche un bagarozzo che vi si incastra nei capelli! E vogliamo parlare del fatto che ho ripreso metà delle scene all’alba, al tramonto e all’imbrunire aspettando l’esatto istante in cui tutto sembrasse fottutamente maggico? E tutto sto dolore, sti morti di fame, sti ciechi, sordi, muti, handicappati? Voi non potete… voi dovete emozionarvi! Dovete provare qualcosa!” No, Terrence, io non provo niente. Non è che hai esagerato?
Di che parla il film? Beh, essenzialmente è un travagliato rapporto di coppia con brevi intrusioni di terzi incomodi. C’è lui, la mora e la bionda. Insomma, il festival di Sanremo. Prima si amano, poi si odiano, poi si amano, poi si odiano, poi si apprezzano. Il tizio è Ben Affleck, attore notorio per la fissità della sua espressione e che, dopo Colin Farrell in The New World, comincia a far dubitare del talento di Malick nello scegliere attori che sappiano convogliare tutte quelle emozioni cosmiche che lui vorrebbe far trasparire dallo schermo. Comunque, Affleck è una specie di tecnico che va in giro a fare rilevamenti in zone residenziali dei bassi fondi che sono state contaminate da chissà quale schifezza industriale. In realtà lavora molto poco… per lo più passa il tempo alternandosi tra la mora e la bionda, le quali (la mora in particolare) vengono dipinte come niente più che delle bambinette nemmeno troppo intelligenti. Tutti insieme ridono, vagano nei prati, fanno giochetti idioti, limonano, si toccano come adolescenti infoiati, diventano tristi. La macchina da presa gioca voyeuristicamente con loro. Se loro danzano, lei danza. Se loro si toccano, lei sonda le loro epidermidi. Se si rotolano nel guano, lei si inzacchera senza pudore. Ma soprattutto li inquadra spesso e volentieri dal basso verso l’alto, perché loro sono i belli e perfetti protagonisti del nostro spot mentre tu, spettatore, sei un cesso e non un cesso qualunque, no, un cesso di autogrill. Solo loro possono ambire ad avere una vita da Mulino Bianco, passando intere giornate a fare la guerra coi cuscini mentre degustano latte e Gocciole, e se per pura sfiga dovessero soffrire, anche la loro sofferenza sarà più figa della tua. Inclusi nel prezzo bimbetti vari che fanno sempre colore. Ah già, quasi dimenticavo padre Bardem, un prete che vacilla nella sua fede e cerca dio perché il mondo è cattivo, la gente soffre bla bla bla. E qui si vede lontano un miglio che Malick non è, e mai sarà, Ingmar Bergman, così come non sarà mai Tarkovskij. Questo è forse uno degli aspetti più fastidiosi del film, ovvero la pretesa non solo di sucitare chissà quali emozioni attraverso artificiosi cliché visivi pseudopoetici, ridotti ormai all’autoparodia, che l’autore ci propina almeno da 15 anni, ma addirittura voler elevare a metafisica tutto questo con riflessioni sulla vita, sull’amore, sulla bellezza, sul dolore, che si riducono a stucchevoli, banali, forzate, strasentite domande retoriche dal marcato gusto cristiano/panteistico.
Siccome sono magnanimo, ho la verità in tasca e avete già impiegato diverso tempo per leggere quest’inutile recensione, ho deciso di risparmiarvi la visione del film fornendovi le risposte a queste annose domande che tormentano il buon Terrence e che, se non fosse per me, potreste trovare scritte solamente sull’etichetta dell’ultimo parfume de Christian Dior alla modica cifra di millanta euri.

1) Da dove viene la bellezza del mondo? Da nessuna parte, il mondo non è bello di per sè, viene percepito come tale dall’animo umano che ricava piacere dall’armonia delle proporzioni e dalle regolarità che esso astrae da una realtà più complessa.
2) Perché dio permette l’esistenza del male e all’uomo di soffrire? Dio non esiste, bene e male sono categorie umane, la natura funziona in modo utilitaristico ovvero seguendo un ordine/disordine che è autoconservativo.
3) “Da dove viene questo amore che ci ama?” F*ck you, Terrence.

In conclusione: La Sottile Linea Rossa è un gran bel film. Ma purtroppo questa recensione parla di To The Wonder, che è un film pretenzioso, vuoto e involontariamente comico, tanto più arrogante quanto pretende di veicolare temi ed emozioni attraverso trucchetti estetici banali. Non date retta a chi vi dirà che, se non siete rimasti colpiti nel profondo da questo film, siete degli automi senza cuore: probabilmente si tratta di gente che si commuove ascoltando i neomelodici partenopei e si fa tatuare gli aforismi di Jim Morrison sui glutei.
A Malick non resta che dedicare le parole del vate: this movie is a piece of shit and you, my friend, are an asshole.

4 commenti

  1. Lenore Beadsman / 21 Giugno 2013

    Hai ragione @dovic e secondo me l’effetto “pubblicità profumi” è dato anche dal francese 😀
    Anche se è stilisticamente simile a “The tree of life”, qui mi sembra che il contenitore sia esagerato rispetto al contenuto. Voglio dire che qui la trama è banale, nell’altro se vogliamo, le immagini sono giustificate dalle domande che tenta di porre. Malick è decisamente andato oltre.

    • Socrates gone mad / 21 Giugno 2013

      @ph0ebe Oh, son contento di aver plagiato la tua opinione su questo film 😀 Pur non avendo visto The Tree Of Life, ne so qualcosa perché l’ha visto mio fratello in tv, quando l’hanno passato pochi giorni fa. Anche se lui lo ha detestato, da quel che ho potuto capire almeno lì ci sono degli elementi che danno al film una parvenza di coerenza che lo rende più accettabile, cosa del tutto assente in To The Wonder. Speriamo che Malick rinsavisca o che, almeno, torni a fare film ogni 50 anni.

  2. inetkaes / 23 Agosto 2013

    Hai ragione e leggendo quello che hai scritto mi sono scompisciata dalle risate. 😀 È tutto vero: il paragone con le pubblicità dei profumi, l’estetismo esasperato e vuoto e l’illusione di un mondo pieno di luce, di vento e campi di grano. Ma nonostante questo, io ho adorato il film, penso perché il mio modo di sentire è vicino a quello di Malick, regista che ho cominciato ad amare dopo aver visto The New World. Forse è perché siamo dei sognatori/romantici/illusi che si emozionano e piangono come femminucce o forse perché stiamo davvero cercando l’Amore e Dio.
    Detto questo, mi permetto di rispondere alla tua lucidissima e geniale analisi e dirti che le tre domande che Malick si pone, per quel che mi riguarda, sono piene di significato e rispecchiano il sentire di molte persone. Io cerco l’amore e la poesia in ogni cosa e in questo film, talmente bello da essere irreale, li ho visti. È un sogno? Probabilmente sì, ma io credo ancora che sognare faccia bene all’anima.

    • Socrates gone mad / 23 Agosto 2013

      @inetkaes
      Non credo che esistano domande sbagliate, ognuno deve poter cercare ciò verso cui si sente più attratto e per cui ha una particolare sensibilità. Quel che non mi piace e non mi convince di Malick è il suo modo di porre quelle domande e di cercare delle risposte, perché è retorico, e quindi banale e artefatto. Se si cercano verità profonde, presentare questa ricerca in maniera così forzata e “confezionata” è, a mio parere, uno svilire quella stessa ricerca, oltre che fare i furbi con lo spettatore ubriacandolo di estetica. Ti ringrazio in ogni caso per l’apprezzamento della recensione.

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