All’altezza de Il grande dittatore (se non meglio) / 20 Novembre 2016 in Vogliamo vivere!
Che ci fa Adolf Hitler nel pieno centro di Varsavia, nell’agosto del ’39, pochi giorni prima del blitzkrieg che darà inizio alla seconda guerra mondiale? Se lo chiede la voce narrante in apertura di Vogliamo vivere!, uno degli ultimi film diretti da Ernst Lubitsch, regista tedesco di origine ebraica emigrato in America, come molti altri suoi concittadini, ma nel suo caso prima della presa del potere del nazismo, durante la caccia ai talenti europei che Holywood portò avanti negli anni Venti.
Lubitsch è uno dei massimi registi della prima metà del Novecento, uno di quelli che ha saputo cavalcare alla grande la transizione tra muto e sonoro, uno dei primi registi ad ottenere l’onore della menzione del proprio nome prima del titolo della pellicola.
Vogliamo vivere! è il suo capolavoro, degno di competere con un caposaldo del cinema del Novecento come Il grande dittatore, sia per il taglio ironico che per i temi trattati. Quello di Lubitsch è forse addirittura superiore al film di Chaplin per coralità e potenza della sceneggiatura, sebbene di contro sconti l’assenza di una star assoluta, capace di bucare lo schermo, come appunto il Chaplin che interpretava il dittatore Hinkel.
L’intreccio tra cinema e teatro, che emerge fin dal principio (l’Hitler di Varsavia non è altro che un attore di una compagnia che sta per portare in scena una pièce sulla Gestapo), accompagna tutto lo sviluppo della pellicola e diventa il leitmotiv della stessa, in un divertente gioco di equivoci volto a ingannare i creduloni (ma fino ad un certo punto) gerarchi del Terzo Reich.
Lo straordinario soggetto, tratto da un’opera teatrale del drammaturgo ungherese Lengyel, è perfettamente trasposto su pellicola da un Lubitsch ispiratissimo e ormai divenuto un vero e proprio maestro della Settima arte.
Il ritmo impeccabile, lo humour spesso irresistibile, l’incrocio tra screwball comedy (un genere giunto ormai alla sua piena maturazione) e un tema tutt’altro che divertente come la guerra, fanno di questo film un vero e proprio masterwork, un’opera imperdibile nel panorama del cinema classico americano.
Di certo ci si può chiedere se una pellicola come questa, brillante e ironica su temi così poco opportuni, si sarebbe prodotta dopo la scoperta degli orrori nazisti ed in particolare dell’olocausto.
Vale lo stesso discorso che si può fare per Il grande dittatore: i due film furono girati quando la guerra era ancora circoscritta all’Europa (quello di Chaplin uscì nel 1940, quello di Lubitsch agli inizi del ’42 – ma fu iniziato poco prima di Pearl Harbor), quando Hollywood si divideva tra i promotori dell’intervento statunitense nel conflitto (con film di diretta o celata propaganda) e coloro che invece, come appunto l’inglese e il tedesco, irridevano la figura di Hitler tentando di esorcizzarne la paura che ormai contagiava il mondo (dopo le guerre lampo contro Francia e Polonia e il tremendo bombardamento dell’Inghilterra, il führer aveva rivolto le sue attenzioni nei confronti della Russia, il più esteso Paese del mondo, nel quale era entrato con le sue armate con una facilità disarmante).
Un cast decisamente all’altezza, dove brilla la stella di Carole Lombard, che interpreta la protagonista, la stella polacca Maria Tura, e che morì poco dopo la fine delle riprese in un incidente aereo, di ritorno da uno dei tour propagandistici in cui cominciarono a cimentarsi le star di Hollywood per convincere i cittadini ad acquistare i buoni di guerra, indispensabili per mettere in moto la macchina bellica americana. Fu dunque l’ultimo film per la regina della screwball comedy.
Uscendo dopo Pearl Harbor, il film peccò – suo malgrado – di tempismo e non ricevette l’accoglienza che meritava da un pubblico seriamente preoccupato dall’inizio delle ostilità e che era pertanto poco propenso a scherzarvi sopra.
Ad anni di distanza da quegli avvenimenti l’opera non può che mostrare tutta la genialità di cui è intrisa.
Basti pensare alla leggerezza con cui è resa la satira del nazismo (Hitler che ordina ai due piloti di buttarsi dall’aereo in volo, con questi che eseguono senza battere ciglio). Basti pensare alla perfezione di un intreccio che non lascia nulla al caso (nel finale il falso Hitler entra nella stanza in cui si trovano Maria Tura e il colonnello nazista perché il suo accompagnatore ha perso i baffi finti).
Il titolo originale tratto dall’Amleto di Shakespeare (pessimamente tradotto in italiano, unica pecca ravvisabile nell’intero progetto) rimanda al momento dell’opera che scatena convenzionalmente la scappatella extraconiugale.