Recensione su Thelma & Louise

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Road movie al femminile: il Mito di se stessi / 2 Dicembre 2016 in Thelma & Louise

Partono così, improvvisamente, senza meta la sprovveduta Thelma e la sua amica razionale e cinica Louise. Una casalinga trascurata dal marito; una cameriera di un fast-food. D’altronde sono gli incipit di ogni “road-movie” che si rispetti: niente di veramente premeditato, disattendendo attese altrui. Allo stesso modo partiamo noi, spettatori, insieme a loro. C’è chi lascia dietro di sé uomini oppressivi e soffocanti, prevaricatori, chi invece una vita che stringe e limita la visione di orizzonti possibili; la fuga sottintende già una matrice di libertà, non conta la meta, non conta il dopo. Basta mettersi in viaggio. Basta tenere in conto che con questa arbitrarietà, e con questi presupposti di casualità e ipotesi, durante il tragitto può accadere di tutto, e tutto, dal fatto più irrilevante, a quello sconvolgente e determinante: tutto ciò, in fondo, che stravolge i programmi a breve termine, o che più profondamente stravolge sé stessi, il proprio io, il proprio carattere e i propri valori, facendo convivere spesso in medesimi istanti lati oscuri e di luce, reminiscenze del passato e oblii del futuro. Il viaggio, si sa, è dentro di noi, lo compiamo con noi stessi, è metafora di un cammino interiore, che parte da punti remoti, che forse non abbiamo mai o ancora unito, e cerchiamo in questo grido di speranza e liberatorio del cammino, di farlo, per dare un senso al nostro essere, al nostro pellegrinaggio in questo mondo. È una ricerca interiore.

Così dopo una notte in un locale country tra alcol e danze, Thelma sta per essere violentata da quella figura di maschio-animale che abita il film di Ridley Scott in modo particolare, ma che è parte di una società gretta e maschilista. E Louise, dopo un diverbio acceso, gli spara e lo uccide. Da qui in poi si mette in moto il racconto epico di Ridley Scott, che guarda con ammirazione e umiltà al capolavoro del genere, “Easy Rider”, lo impreziosisce di colori e sfumature da tipico Western, e lo riveste di atmosfere thriller, stravolgendolo già alla base con la scelta di due donne come protagoniste, per un genere cinematografico maschile per antonomasia. L’omicidio innesca un moto che lì ha visto solo il suo principio: le peripezie si susseguono e le due amiche, tra dissidi ed avvicinamenti, non metteranno mai in conto di fermarsi, e di tornare indietro. Avanti, nonostante tutto, nonostante la mancanza di soldi quando vengono derubate, nonostante le rapine che ne sono una conseguenza, nonostante le fughe dalla polizia. Nonostante un cambiamento sia effettivamente in atto, e sia ancora da accogliere ed accettare: Thelma più solida e meno ingenua; Louise più debole e meno inflessibile.

Ridley Scott filma una dei suoi film più grandi, di quelle opere da annovera nell’antologia del cinema, dove ogni elemento concorre alla realizzazione del prodotto di genere ed artistico impeccabile. Guardate come si muove la sua macchina da presa intorno all’auto sfrecciante delle sue protagoniste, guardate con quale tempistica gestisce i momenti quando è ora di dare spazio al paesaggio, e quali sono questi scenari che fanno da sfondo alla vicenda, così sterminati, così belli, così liberi, così magnificamente dipinti dalla fotografia Adrian Biddle; guardate con quale misura il montaggio narra i momenti più concitati o più decisivi, o anche quelli più esilaranti e spassosi; guardate quanto la colonna sonora di Zimmer contribuisce a conferire epicità e Mito ad un racconto normalissimo, se scremato di tutte queste sovrastrutture. Guardate quanti sottotesti più interstiziali e meno così palesemente diretti, la sceneggiatura vuole trasmettere: “Thelma & Louise” non è la banalità della “donna vs meschinità dell’uomo”; non è solo una storia di emancipazione ed affermazione, non è solo un simbolo. È molto di più, innanzitutto un cult cinematografico, e non è poco. È un rapporto di sessi che non si esaurisce negli eccessi ed accezioni negative, ma si afferma nei dettagli, spesso da ricercare in personaggi secondari e nei loro modi di fare e di porsi (come per il detective interpretato da Harvey Keitel, dal sorriso etico); nei volti di due splendide interpreti come Susan Sarandon e Geena Davies, che Scott lascia soli, senza pudore e vergogna, nel primo piano. Nudi di fronte a sé stessi, non alla società circostante. Scott racconta la fine di un’era, con sottile amarezza e una grinta densa di umanità, fotografata in modo emblematico dal frame indimenticato che chiude il film.

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