Recensione su The Wolf of Wall Street

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3 Febbraio 2014

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Visto ieri carica di aspettative come non mai, trattandosi, tra le altre cose, di un film diretto ed interpretato da due dei miei artisti preferiti in assoluto nel panorama cinematografico.
Ecco le mie impressioni.
Nel complesso giudico The Wolf of Wall street un buon film, diretto in modo sapiente, come sempre, dal caro Martin e interpretato superlativamente dall’ormai consacrato Leonardo Di Caprio.
La storia, peraltro tratta da fatti realmente accaduti, è incentrata sulla vita di Jordan Belfort, broker masticato e risputato alla velocità della luce da Wall Street e rientrato nel mondo della speculazione finanziaria in pompa magna, ma passando dalla porta sul retro.
E’ un uomo eccessivo Jordan. Questo è chiaro fin dal principio. Nei primi minuti di film guida una ferrari, sniffa cocaina dal didietro di una prostituta e atterra con un elicottero nel giardino di casa. Mica spicci.
Di modeste origini, ricco di ambizioni e povero di scrupoli: questi gli elementi per un cocktail di sicura riuscita, ma forse un po’ troppo carico, di quelli da cerchio alla testa pesante il giorno dopo.
Jordan annusa Wall Street, trova un mentore fugace, e si ritrova a spasso in men che non si dica. Il suo primo giorno da broker coincide con un crollo storico della borsa di New York, il così detto “lunedì nero”.
E così, sfogliando gli annunci di lavoro in cerca di qualsiasi cosa, illuso di poter fare a meno dello squillare dei telefoni, delle urla e del profumo dei soldi, Jordan trova l’offerta di lavoro che gli avrebbe cambiato la vita.
Eh sì, perchè proprio rispondendo ad un annuncio, Jordan finisce a lavorare in una modestissima società attiva nella compra vendita di azioni a bassissima quotazione, bidoni per eccellenza, spacciate a piccoli risparmiatori dietro il miraggio di affari sicuri e buoni per pagare conti, mutui, università per i figli, operazioni, etc…
E Jordan, a vendere, è bravo. Anzi, bravissimo.
Da lì all’apertura di una sua società di brokeraggio, insieme al suo neo – socio Don, un tipo inquietante ben interpretato dal sempre bravo Jonah Hill, il passo è breve. O forse troppo lungo, dipende dai punti di vista.
La società di Jordan e Don, poi rinominata “Stratton Oakmont”, conoscerà un’ascesa strabiliante, grazie soprattutto alle strategie di vendita messe a punto da Jordan e alla totale assenza di scrupoli nello gestire le transazioni.
Tanto liberale nella gestione degli affari, con un concetto veramente elastico di legalità ed etica, quanto nella vita privata, fatta di una vita coniugale di facciata e di una serie di eccessi per tutti i gusti, dalle droghe, all’alcol al sesso. Un tipino di modeste pretese, insomma.
E questi eccessi diventano la quotidianità anche alla “Stratton Oakmont”, dove si danno festini senza freni e si consumano droghe e rapporti sessuali fugaci in ogni anfratto. La scena della riunione per decidere se assumere o no i nani da lanciare contro i bersagli è un meraviglioso connubio di battute brillanti e politicamente scorrette all’inverosimile.
Chiaramente, un uomo schiavo di droghe, alcol, sesso e, soprattutto, soldi, per quanto brillante, per quanto ben voluto dai suoi dipendenti, per quanto circondato da lussi oltre modo sfrenati, sarà sempre uno schiavo.
E questo emerge spesso nel film e spicca con forza in alcune scene chiave, come quella della “cordiale” chiaccherata con gli agenti dell’F.B.I., o quella, davvero forte, della lenta strisciata fino alla macchina dopo aver assunto pasticche simil – sedativi per cavalli, o, per citarne un’altra, quella del discorso “conclusivo” ai suoi dipendenti, in cui traspare tutto il suo morboso attaccamento per quella realtà così distorta e viziata.
Jordan, dunque, è schiavo prima di tutto di sé stesso, dei suoi eccessi, del vuoto cosmico che lo attraversa, spingendolo alla continua ricerca di palliativi al suo senso di evidente (solo a chi guarda, lui ne è inconsapevole) infelicità esistenziale.
Pochi i momenti di introspezione vera del protagonista, in particolare mi vengono in mente la chiaccherata con la zia della moglie a Londra e le riflessioni sull’elicottero in Italia.
La costruzione delle scene, in generale, è stata, a mio parere, eccelsa, magistrale.
A partire dai testi dei dialoghi, davvero incalzanti, divertenti e penetranti, passando per la scelta delle inquadrature e giungendo al montaggio. Tutto riesce in modo perfetto.
Dove, secondo me, il film perde smalto, è, analizzandolo globalmente, nella scelta di costruire un secondo atto probabilmente troppo lungo, che ci mostra diverse scene aventi ad oggetto soprattutto gli eccessi di Jordan e dei suoi dipendenti, forse in parte evitabili in favore, magari, di un terzo atto meno frettoloso. Eh sì, perchè il terzo atto dà l’impressione di scorrere via in modo troppo fugace, quasi dando per scontati alcuni passaggi, senza soffermarsi dovutamente su alcuni aspetti cruciali delle vicende legali e della realtà della prigione o della “riabilitazione” successiva.
Non puoi parlarmi 2 ore e mezza quasi di un uomo, farmi vedere il bianco (per la verità pochissimo) e il nero (a palate) della sua vita e poi liquidarmi in fretta e furia una volta giunti ad un’amarissima resa dei conti.
Avrei probabilmente tolto un po’ alla parte centrale, magari, appunto, tagliando qualche scena superflua, come quella sull’aereo per la Svizzera, ampliando invece il terzo atto.
Si tratta di una pecca di struttura che, comunque, non inficia la godibilità del film che resta, a mio parere, davvero buono. Avrebbe potuto essere un capolavoro, ma quel qualcosa nella sua struttura di cui ho scritto sopra, appunto, mi ha disturbata non poco, lasciandomi una sensazione mista di esaltazione e insoddisfazione che mi ha portata ad esprimere questo parere.
Ciò posto, tanto di cappello a Di Caprio per la sua perfetta interpretazione di un personaggio controverso all’inverosimile, che difficilmente attira simpatie che vanno al di là della risata momentanea o del sorriso di compassione in certi momenti.
Un uomo che strizza l’occhio a Gordon Gekko di “Wall Street”, ma si presenta molto più eccessivo ed estremo, meno lucido e implacabile, risultando spesso quasi una caricatura di sé stesso, lungi dal possedere quell’aura di meschina e asettica avidità del personaggio interpretato da Michael Douglas.
Ottimi anche i comprimari, Jonah Hill si conferma interprete poliedrico e convincente e Matthew McConaughey, irriconoscibile, che in 10 minuti, sfodera un’interpretazione davvero massiccia.
Un buon film, che esplora la melma delle umane perversioni, mostrandoci, come consuetudine di Scorsese, un uomo ambiguo, dissoluto, schiavo di sé stesso e di una lucida follia, lasciando ben poco spazio alla redenzione. Tutto è in vendita, tranne la vera libertà.
Perfetta l’inquadratura finale, una panoramica su una platea di sguardi rapiti e occhi vitrei, a rappresentare il sempiterno e quanto mai amaro appeal che Jordan avrà sempre sugli altri.

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