Recensione su The Wolf of Wall Street

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28 Gennaio 2014

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Mastro-don Gesualdo è uno dei personaggi che più mi sono rimasti impressi nella mente pensando all’ incompiuto Ciclo dei Vinti scritto da Giovanni Verga. Mastro-don Gesualdo è un miserabile che ha sfidato la Sorte ed è divenuto Don.
Da muratore a signore.
Dalle stalle alle stelle.

In una scena del film “The wolf of Wall Street” è presente una battuta che mi ha ricordato il romanzo.
Un agente dell’FBI si reca dal protagonista Jordan Belfort, amabilmente interpretato da Leonardo DiCaprio, il quale da broker diventa un grosso imprenditore dedito a frodi con stile, per indagare sul modus operandi dello stesso e della sua società.
L’agente gli rinfaccia le origini, Jordan è figlio di due commercialisti, è un borghese piccolo piccolo e rimarrà un cafone ripulito dalla grana.
L’agente Patrick Denham lo detesta, lo detesta perché è uno squalo delle finanze alla Gordon Gekko del film Wall Street di O. Stone, lo detesta poiché come Gordon è un avido. Come Gordon ha un comportamento distruttivo verso sé e chi gli sta intorno. Ma l’agente Patrick Denham lo detesta per invidia siccome in passato anche egli tentò la carriera da broker.

Entrambi, sia Gesualdo che Belfort, hanno fatto il passo più lungo della gamba. C’è una sola differenza, Gesualdo viene detestato sia da quelli che non hanno ottenuto lo stesso successo che dal ceto notabile; Belfort del resto pippa cocaina, si fa di acidi, sniffa roba dal c**o di una prostituta, partecipa ed organizza feste, veste abiti fimati.
In poche parole è il re del mondo, è l’ incarnazione del self made man e del male breadwinner.

The Wolf of Wall Street parte a bomba.
Martin Scorsese dirige un film ambientato negli ardenti e mordaci anni ’80. Le battute sono secche, il montaggio è veloce. In dieci secondi lo spettatore si ritrova nell’Opulenza, con la o maiuscola proprio come fosse il nome di una nazione.
Una casa da svariati milioni di dollari, una barca pilotata da Schettino, due guardie del corpo, una bella baldracca come moglie, dei bambini che cresceranno viziati, una serie di puttane da fottere nei giorni pari, chili di droga da inserire nel corpo nei giorni dispari, nani da lanciare come frecce.
The Wolf of Wall Street è l’eccesso fatto pellicola.
La vita di Belfort scorre come una cavalcata lubrificata con la vasellina tra un baccanale ed un incontro con i vertici della finanza.
In meno di un’ora lo spettatore viene bombardato con una serie di colpi di scena: il nostro cade come un gigante d’argilla, il nostro risorge come l’araba fenice.
Dalle stelle alle stalle e dalle stalle a nuovamente le stelle passando per una carrellata di culi. Scene di nudo maschile e femminile rendono l’atmosfera barzotta, la sala è oltremodo divertita.
Da notare poi la citazione a Freaks, non la presenza dei nani ma il modo di esultare in riunione che ricorda vagamente il “Gooble, gobble, we accept her, we accept her, one of us, one of us!”

Fine primo tempo.
La sala è barzotta, il film è barzotto

Se la prima parte è semplicemente da urlo, tanto che se non è capolavoro poco ci manca, la seconda ha delle pecche da non sottavalutare. In soldoni mi aspettavo una seconda parte degna, non superiore, della prima. Quello che mi è sembrato è il riproporre ciò che già è stato sviluppato durante la prima fase.
Alcune scene perdono di potenza e il loro
fine viene minimizzato. Ad esempio, in una scena il personaggio interpretato da Leonardo DiCaprio è paralizzato per effetto di una droga in pasticche, la quale non è stata toccata per un decennio ed ha fermentato producendo degli effetti maggiori di svariate volte. La scena è senza dubbio d’impatto ma lo sarebbe stato ancor di più se non avessimo già visto (almeno secondo me) gli effetti della stessa droga con la sola paricolarità di non essere fermentata (scene ripetute svariate volte) su una serie di personaggi secondari e primari.
Altro punto che non ho ben compreso riguarda le vicende legate alla barca e la scena del maremoto in pieno Mediterraneo, il salvataggio da parte della Marina Italiana (da notare poi il cliché dell’Italiano il quale prepara la pasta e dopo averti salvato balla con tua moglie sotto la canzone “Gloria” di Umberto Tozzi). Oltretutto un aereo a distanza di dieci secondi precipita.

Non ci azzecca una cippa lippa.

Salvo pochi punti della seconda parte fra cui il contatto diretto fra spettatore e DiCaprio che detta spiegazioni in economia (presente anche nella prima).

Al di là di tutto ciò risulta un film piacevole ma uscendo dalla sala mi ha lasciato l’amaro in bocca e se lo salvo, lo salvo solo perché la prima parte è superba. Forse mi sono fatto fregare dall’aspettativa più che alta o forse il problema sono io.
Spero comunque che questo non sia l’ultimo film del regista perché, se questo è il testamento di Scorsese, non mi ha lasciato pienamente soddisfatto.

DonMax

3 commenti

  1. Stefania / 28 Gennaio 2014

    Ma eri seduto di fianco a me, al cinema, e hai ascoltato in diretta i miei mugugni, per riportarli pari pari nella tua recinzione? 😀 Questo solo per dire che concordo praticamente su tutto quel che hai scritto.

  2. Bisturi / 28 Gennaio 2014

    La scena del mare grosso e della catastrofe sfiorata sono da antologia. Il clichè dell’italiano festaiolo e “pastasciuttaro”, è si, un clichè, ma forse così sbagliato?! Non mi sembra ed aggiungerei purtroppo! E la canzone Gloria di Tozzi, in quel contesto, spezza in modo sublime la “tensione” della scena stessa, è imprevedibile e molto ironica. Quella scena è per me azzeccata e divertente, così come la sequenza del Lemmon 714, chiaramente un frammento in cui spiccano la grande mimica e capacità recitativa di DiCaprio, una scena che nulla ha da invidiare ad un “Paura e Delirio a Las Vegas”, sui generis ed esagerata come tutta l’opera di Scorsese. Questo è un film che rimarrà, simile ad altre epopee di autodistruzione quali “Goodfellas” e “Casinò” ma mai uguale a nessuna delle due. Per me il suo miglior film dai tempi di “Casinò”.
    L’unico appunto, mi sarei aspettato qualcosa in più dalla soundtrack, conoscendo la cultura musicale del buon Martin. C’è molto blues, gradito, ma mi sarei aspettato qualche guizzo in più.

  3. michidark / 28 Gennaio 2014

    Io l’ho rivisto al cinema (la prima volta l’ho visto in lingua originale). Mi ha divertito moltissimo ugualmente, ma ad una seconda visione devo ammettere che un paio di dialoghi vanno troppo per le lunghi (quello sullo yacht con gli sbirri e la scena nel parcheggio su tutti). Gli tolgo un punto (da 9 a 8). In ogni caso resta un filmone.

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