ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama
Agli inizi del XVII secolo, nel New England, il religiosissimo William viene espulso dalla colonia puritana di cui fa parte, assieme alla sua famiglia altrettanto devota. Senza perdersi d’animo, con caparbietà, e abbandonandosi al destino che Dio pare riservargli, egli decide di trasferirsi altrove, e mette su una piccola fattoria, con un modesto campo di granoturco, una stalla per le capre, un cavallo e un cane che lo accompagni durante la caccia. Tuttavia la terra riserva raccolti malati; la selvaggina nei boschi scarseggia; e in più, all’improvviso, ecco svanire nel nulla l’ultimo figlio nato, di appena pochi mesi, la cui sparizione fa ricadere il sospetto sulla sorella Thomasin, accusata di stregoneria. Da allora l’intera vicenda non fa che peggiorare, in una torbida spirale di angoscia e raccapriccio. Dove si nasconde il diavolo? Vaga nei meandri oscuri della foresta, o sorge dal cuore degli stessi personaggi?
Al suo esordio, il regista Robert Eggers, anche autore della sceneggiatura, riesce a fare centro. “The Witch” è infatti un film (av)vincente, sotto ogni punto di vista, premiato al Sundance Film Festival per la miglior regia.
La Fotografia, per lo più livida e spettrale, ma anche sanguigna e accesa, alle volte intrappola paesaggi brumosi, offuscati da un’aria malsana e complice; altre volte consegna visioni febbrili, ravvivate dal fuoco, ed ombre in cui si agitano cose che non vorremmo vedere. La ricercatezza estetica appare quanto mai elegante, con notevoli riferimenti all’arte pittorica, specie a quella fiamminga; la macchina da presa, a sua volta, sosta o si muove sempre nel modo migliore, esitando o incalzando, morbida o decisa.
Grandissima attenzione viene prestata alla ricostruzione storica, ad esempio degli abiti, realizzati a mano dalla costumista Linda Muir; sino ad arrivare al linguaggio arcaico, vicino all’Early Modern English, adoperato nei dialoghi.
Un plauso particolare va rivolto, poi, alla colonna sonora, a dir poco Ligetiana: il compositore Mark Korven valorizza i silenzi, lascia ticchettare gli archi, fa esplodere cori grandiosi e dissonanti.
Tutti gli interpreti sono di ottimo livello: il britannico Ralph Ineson delinea un William apparentemente granitico nella sua fede, ma con una maschera bigotta percorsa da numerose crepe; la bellissima Anya Taylor-Joy, nel ruolo di Thomasin, serba una magnetica miscela di candore e voluttà, perfetta per il ruolo d’una adolescente che scopre se stessa attraverso i rancori, i dubbi, le pulsioni e le repulsioni; Kate Dickie ben impersona una madre, e dunque una donna, tipica del secolo in cui vive: i suoi slanci mistici si rivolgono tanto verso Dio quanto verso il marito, ed entrambi gli idoli mutano altresì in bersagli, quando su di essi convergono i tentennamenti, le paure e le affezioni da cui è attraversata Katherine; il giovanissimo Harvey Scrimshaw offre un ragazzino diviso tra la devozione filiale, e le energie remote (e inibite) della sessualità; e i due piccoli gemelli, ad ogni comparsa, si rivelano non solo fastidiosi, ma anche inquietantissimi.
Eggers provoca lo spettatore, lo confonde e lo turba, costruendo un horror fondato sulla pura intuizione del Male. Chi ha ragione, e chi ha torto? Esiste una lettura univoca? Il diavolo possiede una sua realtà tangibile, e allora Thomasin appare condannata sin dall’inizio a divenire un’adepta stregonesca; o forse si tratta di un’inevitabile degenerazione scaturita da diverse cause psicologiche, le quali puntualmente fraintendono i gesti, distorcono i fatti, e alla fine si autodistruggono? E pur accettando l’esistenza luciferina, non si può comunque supporre che il demonio non interferisca davvero col mondo, ed anzi si limiti a cogliere i frutti dell’agire umano quando essi si guastino da sé?
Dal punto di vista cinematografico, inoltre, non è lo stesso spettatore a cedere alla banalità della superstizione, nel caso in cui ritenga autentica la manifestazione conclusiva? Poiché, se invece riflettiamo in termini illuministici, ci è dato ipotizzare che laddove già covi un qualsiasi eccesso, ossia una forma di allontanamento dalla concordia della civiltà e della ragione, lì l’orrore possa facilmente sollevarsi, imprimendo una spinta esigua, e con essa riesca ad abbattere un equilibrio ormai da tempo corroso. In questo senso, il Male non è affatto esterno, per così dire metafisico, ma giace sepolto nella nostra parte irrazionale; e allontanarsi da Dio, significa allontanarsi dalla lucidità dell’intelletto, e quindi dall’umanità.
Eggers, con abile saggezza, non fornisce una risposta chiusa, e lascia gli spettatori a battibeccare tra loro nella sala, a luci accese, su quale sia il senso assoluto della storia. Come ogni vero autore, sin dalla prima opera, è capace di fare.
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