ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama
“Siamo andati al cinema a vedere un film, si intitola The Whale, in italiano si traduce ‘La balena’”
“Di cosa parla?”
“Di un uomo gravemente obeso”
“Sì! Ce l’ho presente! Ho pensato che potrebbe essere un buon film da vedere. Di cosa parla?”
“Di un uomo gravemente obeso”
“Non vuoi dirmi altro della trama, perché potresti svelarmi troppo del film?”
“No, è che non c’è altro da dire sulla trama del film. Parla di un uomo gravemente obeso. E basta”.
Questo dialogo telefonico tra me e un mio conoscente riassume praticamente tutto quello che penso del film di Aronofsky, dopo averlo visto.
The Whale è un film ruffiano che pretende la piena empatia e la completa indulgenza del pubblico (nei confronti di tutti i personaggi, di tutte le situazioni che descrive e del film stesso), senza offrire in cambio nulla, neanche una buona storia.
Al contrario, costringe chi guarda a soffocare per circa due ore, inscatolato in un formato quasi quadrato (1,33:1), all’interno di un film di asfittico impianto teatrale, punteggiato da musiche dottrinali, a stretto contatto con la sofferenza prostetica del protagonista (probabilmente, il ruolo della vita per Brendan Fraser, tornato in sella dopo un lungo periodo personale difficile e travagliato), un personaggio che sembra essere stato concepito con il solo scopo di muovere a compassione per il solo tempo della messa in scena.
Che delusione: altrove (vedi, ovviamente, The Wrestler, ma, per alcuni aspetti, anche Il cigno nero), Aronofsky aveva saputo parlare di disagi simili (cioè, legati anche al rapporto con il proprio corpo) e pressoché identiche alchimie famigliari, con maggiore originalità e, in quel modo, minore pietismo.
Di vagamente interessante e appena sufficiente a intavolare una piccola riflessione, il mio compagno di poltrona ha attirato la mia attenzione sul significato del titolo.
Se togliamo l’accostamento didascalico alla complicata condizione fisica del protagonista, la Moby Dick di Charlie è -forse- la figlia (interpretata da una nevrotica Sadie Sink che, praticamente, è stata chiamata a interpretare una piccola variante del suo personaggio in Stranger Things), se non -forse-la vita stessa, anzi, una vita serena, in accordo con la sua ottimista visione dell’esistenza.
Benché tutto sembra andargli male, infatti, Charlie conserva un buon cuore e una grande attenzione nei confronti dei sentimenti altrui e, seppure con un po’ di fatica, vede il lato positivo delle cose e delle persone, il che è rassicurante, ci mancherebbe. Ma il film, che conta pressoché essenzialmente sulla tenera espressività dello sguardo di Fraser, non sembra avere molto altro da dire.
E il finale surreale ed elegiaco (che molto ha in comune con la media degli altri finali della filmografia di Aronofsky, certo, senza, però, essere ugualmente giustificato) è la ciliegina sulla (mia) delusione.
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