12 Recensioni su

Il cavallo di Torino

/ 20128.286 voti

Piccolo pensiero su questo film. / 8 Novembre 2017 in Il cavallo di Torino

Un film adoratissimo dai cinefili, un feticcio, guai a chi pensa male di questo film ed il suo autore, chi lo fa viene subito messo alla gogna, quindi mi sono cimentata.
Io penso che sia un film che nessuno vorrebbe vedere, bisogna essere costretti a farlo, per me i primi trenta minuti sono stati letteralmente rivoltanti, un rigetto, di quello più totale, ma pian pianino ha cominciato a coinvolgermi, sono state le immagini ad affascinarmi e il suono che accompagna queste ultime. Qui avviene il contrario rispetto ai films cosiddetti di intrattenimento o commerciali, tutto ciò che vediamo è ripugnante, ti scuote, la forza del film sta proprio in questo, il film è arido, austero, ma questa austerità alla fine innesca gioia, una gioia cinematografica per aver visto un’opera profonda, ma questa gioia è inversamente proporzionale alle condizioni di visione. La ricompensa è alla fine, la ricompensa è nella memoria del film e non durante la visione; il cinema dovrebbe essere questo: è ciò che “sentiamo” dopo, d’un tratto avremo un ricordo straordinario del film, la gioia non avviene durante la visione del film, ma dopo averlo visto, è retrospettivo, purtroppo questo tipo di film non è nelle usanze di oggi, la gente vuole gioire subito, Tarr come Bresson o Godard non è questo, la gioia avviene dopo, lasciandoti un ricordo indelebile.

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5 Maggio 2015 in Il cavallo di Torino

Il grande fisico italiano Enrico Fermi, nel proporre il paradosso che porta il suo nome, si chiedeva dove fossero tutti quegli alieni che dovrebbero popolare l’Universo, viste le teorie che davano per scontata la vita extraterrestre, considerata la grandezza pressoché infinita dell’Universo.
Una delle soluzioni più ironiche fu fornita dal suo collega Leo Szilard: sono già tra noi e si fanno chiamare ungheresi!
Uno di questi alieni è sicuramente Bela Tarr, o almeno così devono aver pensato coloro che si sono avvicinati al film senza conoscere lo stile del cineasta di Pecs.
Il cavallo di Torino, nel prendere spunto da un episodio realmente accaduto nel capoluogo piemontese e che vide coinvolto il filosofo tedesco Nietzsche, fornisce l’ennesima variazione sul tema di un argomento caro al regista: l’Apocalisse dell’Uomo (intesa in senso principalmente morale), un Giudizio Universale senza santi né demoni, in cui l’Uomo si trova a fare i conti con la solitudine dell’esistenza e con la propria ineluttabile fine.
La prima parte della pellicola non può non apparire un esercizio di stile protratto agli estremi, un virtuosismo estetico-intellettuale sicuramente non adatto ai più.
Soltanto dopo un’ora di ermetismo, di rappresentazione della banalità del quotidiano (una ripetitività disarmante ma efficace), si giunge al punto.

Eppure il film potrebbe benissimo anche essere visto, depurandolo da qualsiasi interpretazione trascendente, come un affresco dell’esistenza umana (e in particolare della povertà), di un realismo talmente esasperato da volersi confondere esso stesso con la realtà.
La stessa patata bollita tutti i giorni.
Lo sguardo perso fuori dalla finestra ad osservare il nulla.
I rituali della vestizione, della raccolta dell’acqua dal pozzo, della pulizia della stalla.
L’oscurità che nel finale scende misteriosamente sui protagonisti corrisponderebbe, a questo punto, alla presa di coscienza della pesantezza della propria esistenza, una conclusione a cui il cavallo era già giunto qualche tempo prima con la decisione di lasciarsi vincere dall’inedia.

Un film decisamente impegnativo, come tutti quelli di Tarr, ma che regala innegabilmente delle soddisfazioni estetico-visive per chi riesce a resistere alla sfida intellettuale lanciata dal regista.
La fotografia, nel solito bianco e nero molto contrastato, e l’ambiente domestico donano impressioni caravaggesche.
Un motivetto estraniante (ma particolarmente adatto alla situazione) si alterna al rumore del vento che spazza incessante la campagna di un luogo che è un non-luogo (tanto che i protagonisti non riescono ad allontanarsene quando prendono la decisione di abbandonare la casa).
Dialoghi pressoché inesistenti, se si eccettua il lungo, accaldato monologo del visitatore.
Una voce fuori campo poetica in un ungherese armonico e musicale.
Per il resto è il solito, visionario Tarr dei lunghissimi eppur così fluidi pianosequenza.
Resta la sensazione che Satantango sia decisamente superiore, nonostante la durata quasi triplice (oltre 7h contro le 2 e mezza di A Torinoi Lo) lo renda (apparentemente) ancor più ostico.
Ultima opera di Bela Tarr, che dopo di essa (premiata a Berlino con l’orso d’argento, gran premio della giuria) ha annunciato il ritiro dalla regia.

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Produci, consuma, crepa. / 20 Marzo 2014 in Il cavallo di Torino

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

E’ più angosciante l’ineluttabilità di una vita che sembra fatta solo di fatica e dolore o la certezza, altrettanto inevitabile, che essa, per quanto difficile da sostenere, sta per interrompersi, senza possibilità di appello, senza “addurre motivazioni plausibili” (cit.)?
La rinuncia finale al cibo crudo e la resa all’oscurità sembra suggerire che la propensione di Tarr sia per la prima condizione: meglio la foga rumorosa di un vento nemico e comunque insensato (ritmico, più che cacofonico) che il silenzio mortale dell’Apocalisse. E’ meglio sentirsi vivi nel dolore, quindi?

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16 Dicembre 2013 in Il cavallo di Torino

So che questa recensione provocherà l’ira dei finti intellettualoidi che hanno eletto questo film capolavoro assoluto del cinema.
Ma perché dovrei voler vedere per sessanta e passa minuti la deprimente esistenza di queste persone?
Un film è un film, non una fotografia, ed io in questa pellicola non ci ho trovato altro a parte inquadrature ben studiate ed una fotografia fantastica.
Tutto questo filosofeggiare su uomo e natura è per me assai noioso. Mi deprime, perché è un mattone sui testicoli che non ho, è davvero pesante, difficile da digerire.
Se gli argomenti trattati fossero stati affrontati in modo meno opprimente e deprimente, forse, sarebbe stato più tollerabile.
Ma è troppo, troppo pesante, non riesco ancora a capacitarmi di essere arrivata alla fine. D’altronde ho rimosso e seguito poco tutti gli accadimenti, passata la prima mezz’ora di film. Ho avuto un vero e proprio calo di attenzione, ci mancava poco che non mi addormentassi. Pazienza.
Mea culpa, eh. 😉 De gustibus non disputandum est.

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Un lento viaggio verso la fine / 23 Settembre 2013 in Il cavallo di Torino

Questo film del 2011, diretto da Béla Tarr, è un lento viaggio verso la fine…verso la morte.
Il film è diviso in 6 giorni nei quali assistiamo alla vita quotidiana di un vetturino e della sua giovane figlia.
Essi, lavorano dalla mattina fino alla sera per continuare a restare in vita e a poter magiare patate bollite ed a bere acqua del pozzo.
É angosciante pensare che fanno tutto questo solo per la vita e, soprattutto, che non possono godere dei piaceri di essa.
Eppure, la storia di questi due non è altro che un’allegoria della vita dell’essere umano in generale che compie solo un lento viaggio verso la morte…e, questo viaggio è la vita.
Come ha detto lo stesso Tarr, con questo film ha cercato di riprodurre la vita…perché l’uomo compie sempre le stesse azioni aspettandosi qualcosa di nuovo che non arriva mai…e questo è il modo in cui trascorre la vita.
In effetti, per tutto il film vediamo i due personaggi che lavorano e ripetono le azioni quotidiane…è angosciante ma è anche ironico…perché tutto ciò noi lo vediamo in 149 minuti…ma questi equivalgono alla durata della vita intera..senza che nemmeno noi ce ne accorgiamo.
C’è poco dialogo tra il padre e la figlia (poverella….lavora tantissimo) e parlano solo nei momenti in cui succede qualcosa di inaspettato…perché, che si voglia o no, nella vita succede sempre.
Gli zingari, il conoscente che passa per la casa e preannuncia l’apocalisse in un discorso molto inquietante.
E, man mano, ci avviciniamo sul serio alla fine del mondo.
In Satantango la speranza è rappresentata dai rivoluzionari Irimias e Petrina mentre qui essa non esiste.
O meglio, non esiste per quei due ma Bela Tarr ci fa capire che in generale per l’essere umano c’è..proprio così: gli zingari non sono altro che il desiderio di libertà, infatti loro stanno per emigrare in America…alla ricerca della loro felicità.
Ad ogni giorno che passa, la speranza diminuisce e il cavallo di famiglia non mangia più, il pozzo si secca…fino ad arrivare al sole che si spegne e ai due “protagonisti” che si decidono a non magiare più e a morire…solo il vetturino ha ancora una timida speranza quasi stupida…e, poco prima che l’ultimo fotogramma del film si sfochi, afferma :- dobbiamo mangiare.
É assurdo come l’uomo voglia sempre ad ogni costo ripetere le stesse situazioni aspettando che qualcosa cambi…è come se tutti fossimo affetti da disturbi di tipo ossessivo-compulsivi. E, Bela Tarr, mette in risalto in modo spietato ed angosciante la pesantezza dell’umanità e della vita. Forse, in modo addirittura più chiaro e coerente di ciò che voleva fare in “Satantango”.
Certo l’opera era molto più lunga, perché è vero le le sequenze sono lunghissime ma è pur vero che sono tante e quindi è pure difficile mantenere una certa costanza e calibratura all’intera opera…è chiaro che è comunque un film che va visto (e rivisto) e quando stai più di 7 ore a vederlo un po’ ti affezioni pure…si crea quasi un legame d’affetto con la pellicola, sebbene non sia un sentimentale.
Bela Tarr ha dichiarato che questo è il suo ultimo film…spero che non sia perché non ha l’opportunità e i consensi per continuare a fare film di questo tipo perché essi sono quasi perfetti e densi di una grande espressività espressa soprattutto attraverso i piano sequenza che sono tipici del regista ungherese.

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Un film grandioso / 29 Agosto 2013 in Il cavallo di Torino

Riprende il tema del dramma della vita umana già trattato in Sátántangó e lo approfondisce ancora di più andando a creare un capolavoro che di umano ha ben poco.

straziante. / 4 Giugno 2013 in Il cavallo di Torino

scorre più di quanto ci si aspetti inizialmente.
è un film davvero intenso, si riesce a godere ogni dettaglio grazie alle sole trenta riprese.
la colonna sonora è l’unico elemento d’appiglio per la realtà, ed oltretutto è meravigliosa.
un continuo confronto tra la morte e la quotidianità, che arrivano infine ad essere messe sullo stesso piano. 146 minuti di arrendersi alla vita, che fan venir voglia di goderti appieno la tua appena cominciano a scorrere i titoli di coda.

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Miseriaccia! / 6 Aprile 2013 in Il cavallo di Torino

“Hanno cominciato i tarli. Si sono zittiti improvvisamente. Hanno smesso di nutrirsi, hanno rinunciato a vivere, hanno preferito il silenzio della morte. Poi è arrivato il vento. Gelido, ostile, sferzante.
La vita per me è fatta di piccole cose, di gesti ripetuti, sempre uguali. Mangiare, faticare, dormire e poi mangiare di nuovo. L’importante è non pensare. Non pensare alla miseria, alla morte, alla solitudine, al tedio fatale che mi angoscia. Niente che, con questo gelo, possa scaldare il cuore.
Ora anche il cavallo ha smesso di nutrirsi. Vorrà lasciarsi morire! Sembra che stia calando sul mondo una nebbia di annichilimento, nessuno vuol più portare il pesante fardello che gli è stato assegnato. Dicono che anche gli dei siano fuggiti via. Lontano.
Anch’io, prima o poi, sarò libera. Sarò libera di sdraiarmi sull’erba, di chiudere gli occhi, di fantasticare. E di sognare di cucinare, di mangiare, di dormire. Domani forse è un altro giorno. Miseriaccia!”

Un bianco e nero abbacinante, toni su toni di un grigio spettrale. Il cavallo di Torino non è un film, è una lunga, faticosa trance in cui cade lo spettatore, semicosciente, ipnotizzato da quello che sta vedendo o credendo di vedere. Impossibile descrivere con parole sensate il senso di annichilimento, di angoscia che ti prende. Io non ne sono capace.
qui la colonna sonora.

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bellissimo / 24 Febbraio 2013 in Il cavallo di Torino

imperdibile

Durezza fatta pellicola / 19 Gennaio 2013 in Il cavallo di Torino

Un film pesante, sicuramente poco piacevole ma che a mio avviso va visto.
Correva l’anno 20011 quando il regista ungherese Bela Tarr crea un film che mi ha davvero colpito.
La vita massacrante di una famiglia composta da padre e figlia, viene descritta accuratamente dal regista. Prende la loro vita quotidiana, si interessa dello spazio di tempo di sei giorni. In sei giorni, Dio creò la terra, l’uomo e tutte le cose viventi. In sei giorni Bela Tarr li distrusse.
La pellicola si apre con un episodio reale di cui fu testimone il filosofo tedesco Nietzsche. A Torino, nel 1889 vide un cocchiere frustare con molta forza il suo cavallo. Lo fermò e venne accompagnato a casa.
Qui, inizia una follia che durerà per dieci anni.
Verrà sdraiato sul letto e sarà assistito dagli amici, dalla madre e dalla sorella.
In questo stato le sue ultime parole furono:”Madre, sono pazzo”. Questa pellicola è la botta e risposta al dopo, cioè ciò che accade al cocchiere, al cavallo e alla sua figlioletta. La loro sussistenza infatti è proprio il cavallo (che arriverà a rifiutar di bere e mangiare come se volesse morire) oltre al loro pezzo di terra che in poco tempo diverrà arido ed il pozzo completamente asciutto. La cosa che mi ha più colpito è il senso di solitudine dei personaggi, di sporco dei loro abiti, barbe, capelli e della loro vita, la colonna sonora e il bianco/nero rendono la pellicola di una melanconia e di una durezza incredibile. Pochissime le battute, ci si concentra maggiormente al gioco di silenzi e sguardi verso l’ignoto, forse la ricerca di un futuro migliore o forse il presentimento negativo, il presagio, come se si aspettasse l’arrivo di qualcosa di brutto. La vicenda prende piede in un casale e un piccolo appezzamento di terra che si estende vicino. A livello tecnico, abbiamo una sola inquadratura lunghissima e tristissima, questi piano-sequenza ci immettono nella loro vita.
Una vita fatta di dolori che si basa su azioni semplici e ripetute all’ennesima potenza: “l’acqua da prendere nel pozzo, accendere un fuoco, spogliare il proprio padre, portare un carro fuori dalla sua sistemazione, mangiare delle patate, aspettare che qualcosa cambi.
Una vita dura, tremenda che come sottolineerà un loro compaesano: “Una vita dove non ci sono né Dio né dei, né bene né male. Una vita dove c’è la sconfitta e la vittoria. Nessun cambiamento”.
DonMax

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anche se i e mezzo / 11 Ottobre 2012 in Il cavallo di Torino

In quest’anno cinematografico c’è un certo gusto per i temi apocalittici. L’unica differenza qui è che il discorso esula dalle radici borghesi (vedi Von trier che vi affonda il bisturi), ma se si guarda anche al senso di apocalisse messo su pellicola qualche anno fa con La strada l’approccio è completamente diverso. Il punto di partenza è più o meno lo stesso, la natura si ferma e diventa ostile, non si sa perché. Sono i tarli la prima avvisaglia, poi la rovina totale. Il mondo socializzato, quello che produce comunità, politica (in senso alto), cultura si intravede a malapena, porta cattive notizie che però non sono viste come tali fin quando la natura, madre, matrigna non si ritira platealmente. E’ un film di puro statico orrore che è ostico nei primi 40 minuti, una volta entrati nel circolo della ritualità del dormire/alzarsi/vestirsi/mangiare tutti i piccolissimi accadimenti che la minacciano sono vissuti come un agguato: sottolineo l’insistenza della macchina da presa sulla ruota del carro quando i due protagonisti tentano la fuga, si insinua la paura che si possa rompere e che il progetto fallisca (fallirà non si sa bene perché, ma per altri motivi).
Molto bella la fotografia, tutti i gesti ripetuti dai protagonisti non sono mai ripresi nella stessa maniera: il pranzo è prima concentrato sul padre, poi sulla figlia dalle spalle del genitore, poi la scena diventa plurale con loro due a tavola nella stessa inquadratura.
Mi è piaciuto, ma ho trovato oggettivamente difficoltoso l’inizio e fuori dalle righe il monologo del vicino di casa, tracimante, confuso, senza direzione perché le prende tutte. Il collegamento con l’incipit su Nietzsche è labile e si presta a molte interpretazioni: ok per il sempre uguale che è alla base della sicurezza della vita dell’uomo, se non fossimo sicuri che domani sarà più o meno come oggi non reggeremmo e la follia ci prenderebbe (non potremmo programmare, prevedere, agire, decidere); la causa scatenante della follia del nostro sembra derivata dalla violenza dell’uomo sull’animale e dalla pietas, mentre non ha senso nulla di quello che accade ai due protagonisti: non violano nessun patto con la natura, se non quello basico di esistere come animali superiori che comunque la natura la cambiano, giudicare il limite di dove sia l’eccesso/violenza è totalmente relativo e mai assoluto.

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Il cinema non è la vita / 11 Maggio 2012 in Il cavallo di Torino

La bella fotografia in bianco e nero, i lunghi piano-sequenza, l’ambientazione metafisica e sospesa, l’asciuttezza pauperistica e il ritualismo minimalista salvano questo film solo sul piano formale. Ci sono due limiti principali a mio parere gravi.
Il primo è il moralismo di fondo, lo stesso di Von Trier. Ciò che accade al cocchiere è la punizione divina per il suo comportamento violento? Ciò che sta accadendo alla città, come racconta l’ospite, è la conseguenza del suo decadimento morale? Se in Melancholia l’apocalisse punitiva scaturisce dal mondo cittadino e borghese, qui essa nasce intorno al mondo contadino.
Il secondo limite sta nell’eccessivo realismo delle situazioni rappresentate. L’estenuante lentezza, ripetitività e quotidianità delle situazioni immortalate, compresa l’inutilità di molte di esse, ci costringono ricattatoriamente a pensare che quello che vediamo sia la realtà. La pellicola diventa quindi per lunghi tratti un documento. Dobbiamo allora avere il coraggio di affermare che in quei momenti non si sta più facendo cinema.
D’altra parte la prova del nove difficilmente fallisce: quando ci sono parti che puoi vedere con l’avanzamento veloce senza che il film ne perda o addirittura con dei miglioramenti, vuol dire che ha qualche problema!
Chiudo con un’ultima considerazione che dovrebbe destare sospetto in coloro che possiedono anche solo una vaga idea di precedenti storici di evoluzione/involuzione dei linguaggi artistici: rifugiarsi nel vernacolo è un’operazione antimoderna e quasi sempre reazionaria.

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