Recensione su I fratelli Sisters

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Parabolico / 5 Maggio 2019 in I fratelli Sisters

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Jacques Audiard prende il romanzo di uno scrittore canadese con un nome che profuma di fiammingo, Patrick De Witt, e, avvalendosi di un cast anglofono di massimo rispetto, si cimenta in un film western, organizza i set in Spagna, Francia e Romania e vince il Leone d’Argento a Venezia 2018. Uno splendido giro del mondo.
Nel processo di destrutturazione e riscrittura del genere ormai in atto da tempo, I fratelli Sisters non demistifica il mito della frontiera, ma, un po’ come (secondo me) hanno fatto i Coen con i vari capitoli de La ballata di Buster Scruggs, usa la cornice western per mettere in scena una parabola. In questo caso, si parla di avidità e di come questo desiderio smodato di accumulo compulsivo di beni materiali e potere conduca inevitabilmente alla disfatta.

Da una parte, quindi, ci sono gli avidi: Charlie Sisters (Joaquin Phoenix), il Commodoro (Rutger Hauer, che riesce a non dire neanche una battuta!), Mayfield (Rebecca Root), i vari scagnozzi dell’uno e dell’altra.
Dall’altra parte, ci sono gli utopisti: Eli Sisters (John C. Reilly), Morris (Jake Gyllenhaal) e Warm (Riz Ahmed).
Gli uni e gli altri vivono una particolare avventura risolutiva, la più pericolosa e determinante della loro vita.

Audiard rende tutto molto estemporaneo. In particolare, mostra dei cacciatori di taglie alle prese per la prima volta con gli spazzolini da denti (cura dell’igiene personale come segno di civiltà e di affrancamento dall’imbarbarimento), gli affida dialoghi che -in quel contesto- suonano decisamente originali, quasi ucronici, mostra infallibilità e, contemporaneamente, debolezze psicologiche e fisiche di uomini avvezzi alla violenza a sangue freddo, delle vere macchine da guerra.
Il film non difetta di parentesi ironiche (nerissime), anche nelle sue frazioni più drammatiche, quasi a sostenere la tesi di Rimbaud per cui “la vita è una farsa in cui tutti abbiamo una parte”.
Le musiche di Alexandre Desplat, a tratti particolarmente stranianti, accentuano questa strana atmosfera sospesa e irreale.
Funzionale anche la limpida fotografia di Benoît Debie.

Nonostante il film non mi sia dispiaciuto, confesso di averne accusato la durata, che pure non è eccessiva. Non so esattamente a cosa imputare questa sensazione (forse, un sentore di didascalismo?), dato che il ritmo del racconto è sufficientemente sostenuto.

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