Specchi e maschere / 19 Ottobre 2018 in The Reunion

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Il film della regista svedese Anna Odell arriva nelle sale italiane cinque anni dopo aver partecipato a Venezia 70. Presentato nel 2013 nell’ambito della Settimana della Critica, The Reunion ha vinto il premio FIPRESCI e una menzione speciale. In seguito, il film e la sua autrice hanno ricevuto svariati riconoscimenti in occasione di diversi festival europei e due Guldbaggen (gli Oscar del cinema svedese).

Nel curioso e angoscioso The Reunion, la Odell parla di bullismo e dei suoi effetti sulla personalità e sulla psiche delle persone. Per far ciò, mescola e intreccia saldamente almeno tre piani narrativi, ricorrendo alle più svariate potenzialità offerte dal medium cinematografico. The Reunion, infatti, è una strana forma di docufiction che si basa su svariati eventi realmente accaduti, con inevitabili echi cinematografici vinterberg-iani (Festen, 1998). La realtà, qui, è sola rappresentazione, quella che, per esempio Daniele Dottorini, nel saggio La passione del reale (Mimesis, 2018) definisce un “gioco complesso di finzioni (…) un’immagine del reale”.
La Odell è costantemente soggetto e oggetto di una narrazione che si alimenta attraverso una personale rappresentazione della realtà. Pur proponendosi come vera, essa non tenta in alcun modo di camuffare la propria artificiosità.

Qualche tempo fa, la vera Anna Odell scopre di non essere stata invitata a una riunione di ex compagni di scuola. Inizia a domandarsi perché. Che la sua attività artistica abbia urtato qualcuno di loro?
La Odell, infatti, è un’artista nota in patria per le polemiche legate a un suo finto suicidio messo in scena per le riprese di un film del 2009, Okänd, kvinna 2009-349701, e al suo successivo ricovero in ospedale.
Così, decide di girare un film sulla questione.
E nasce The Reunion.
Nel film, esistono una versione univoca di Anna e almeno tre versioni fra loro differenti dei suoi compagni di scuola. Sappiamo cosa è accaduto alla Odell, ma, per quanto dolorosa e credibile, quella mostrata è solo la sua versione dei fatti. Quindi, conosciamo una versione della storia, ma, in concreto e in astratto, ne esiste una per ognuna delle tre versioni degli altri “personaggi”.

In questo senso, la materia della narrazione sembra nascere da ciò che viene riflettuto da specchi posti specularmente fra di loro. In questo film, la Odell si pone idealmente fra due specchi che rimandano all’infinito la sua immagine. In ciascuno dei “mondi” generati dagli specchi, c’è una versione della Odell in azione. È curioso (ma non forzato) che in questo lavoro della regista ricorrano in maniera implicita (e, probabilmente, intesi in maniera differente) due elementi del cinema di un altro autore svedese, Ingmar Bergman. In The Reunion, infatti, sono presenti sia la maschera che lo specchio. La Odell interpreta (e racconta) se stessa, specchiandosi all’infinito e creando mondi in cui i volti reali degli altri personaggi sono affidati ad attori (che interpretano altri attori!), cioè a maschere.
Un momento emblematico del film è rappresentato dall’incontro fra il “vero” e il “finto” Niklas: attore che interpreta il Niklas fittizio e attore che interpreta il Niklas originale si parlano, in un cortocircuito dimensionale degno di un paradosso fantascientifico.

La Odell costruisce un approccio alla realtà creando cinema. L’autrice manipola realtà e finzione per generare un mondo non valido (cioè, non esattamente rispondente alla realtà, pur avvicinandosi molto a essa), in cui l’aspetto finzionale delle immagini e i loro contenuti documentali sono assolutamente inscindibili. L’obiettivo della Odell è quello di mettere il pubblico in relazione con il reale (e i suoi dilemmi), ricorrendo alla fiction.

The Reunion non è un film con velleità terapeutiche (forse a torto, non ritengo che la Odell l’abbia realizzato, esclusivamente o in parte, per esorcizzare i demoni che l’hanno portata a un drammatico crollo nervoso, intorno al 1995), ma ha un impatto artistico e sociale non indifferente. Da un lato, mostra alcune delle potenzialità che, a livello tecnico e senza avvalersi di tecnologie digitali, il cinema possiede ancora (essenzialmente, la buona riuscita di questo film sta nell’accorto uso di una tecnica “tradizionale” come il montaggio). Dall’altro, si propone come strumento di riflessione: quanto e come le nostre azioni influiscono sul benessere di chi ci circonda?

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