Recensione su L'altra faccia del vento

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Infernale Welles / 6 Novembre 2018 in L'altra faccia del vento

(Note e riflessioni sparse)

Vedere L’altra faccia del vento (The Other Side of the Wind) è un’esperienza cinefila davvero stimolante.
Postumo e arbitrario, cioè montato senza l’apporto definitivo del regista (scomparso nel 1985), ma concepito in stile, cercando un appiglio nei suoi lavori precedenti e nella piccola porzione di film già assemblata e seguendo appunti dell’autore per trovare il bandolo in una matassa lunga circa 100 ore di girato, l’ultimo celebre film incompiuto di Orson Welles ha visto la luce a quasi 50 anni di distanza dal primo ciak, avvenuto nel 1970. Sopraggiunto al termine di una lunga ed estenuante diatriba legale fra i detentori dei diritti e del materiale girato da Welles (la figlia del regista, Beatrice; l’ultima compagna di Welles, Oja Kodar, che recita anche nel film; la casa di produzione franco-iraniana del film, Astrophole), Netflix è riuscito a portare finalmente sullo schermo quello che è stato definito il miglior film “mai” realizzato grazie alla testardaggine del produttore Frank Marshall (che ha esordito nel cinema con questo lavoro di Welles), del regista Filip Jan Rymsza e di Peter Bogdanovich, regista e amico di Welles a cui Orson affidò l’onere di portare a termine L’altra faccia del vento se lui non ne avesse avuto la possibilità. Il film è stato presentato in anteprima fuori concorso alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia 2018.

L’altra faccia del vento racconta l’ultimo giorno di vita di un regista americano, Hannaford (un totemico John Huston), tornato a Hollywood dopo un lungo esilio, alla ricerca dei finanziamenti necessari per completare il suo ultimo, rivoluzionario film. Il party organizzato da un’amica di Hannaford in una villa nel deserto della California in occasione del compleanno del regista dovrebbe consentirgli di trovare i finanziatori necessari e un primo appoggio della critica. Ma tutto si complica e, come si apprende nell’incipit del film di Welles, Hannaford muore all’alba, in un incidente d’auto, lasciando il suo film senza finale. Suicidio o tragica fatalità?

Il film di Welles è concepito come una matrioska. Il nucleo è il concetto di creazione artistica e compromesso (legato alla figura del regista Hannaford-Huston-Welles). Le scatole sono “il film nel film” (a colori) girato da Hannaford (Welles l’ha concepito come un quadro in movimento ed è caratterizzato da singole immagini particolarmente incisive), i footage del party (a colori e in b/n) girati da un numero imprecisato di cameraman/giornalisti particolarmente invadenti che riescono a insinuarsi in qualsiasi anfratto della villa, il film di Welles che (sembra) contenere tutto, incentrato (forse) sul filmaker.
Il film di Hannaford, privo di dialoghi, è una sorta di compendio delle più prolifiche tendenze del cinema europeo e dell’avanguardia americana. In un’elegante forma parodistica, con immagini visivamente potentissime, fra gli altri, vengono citati più o meno apertamente (e “sbeffeggiati”) Michelangelo Antonioni (per moltissimi motivi, il riferimento principale sembra Zabriskie Point), Bernardo Bertolucci e Russ Meyer (curve prorompenti a parte, la Kodar sembra una delle sue bambole erotiche e sessualmente aggressive).
Hannaford/Welles sembra alla ricerca dello scandalo estetizzato: mai, in un film di Welles, si erano visti nudità e sessualità rappresentate in maniera tanto esplicita (il regista affermava che si ricorre all’erotismo quando non si ha altro da dire). Welles sembra divertirsi a celebrare sardonicamente e con rabbia creativa l’avvento di una forma-cinema completamente nuova (di lì a poco, sarebbero nati i blockbuster di Spielberg e Lucas).

Questo è un film pienamente wellesiano non solo per via dei lampanti riferimenti autobiografici (checché ne dicesse lo stesso Welles, che li negava apertamente attraverso un blando gioco di depistaggio), quanto, piuttosto, per l’assurda e labirintica concezione teorica e per il complicato ed estemporaneo lavoro sul set. Welles non ha mai scritto una sceneggiatura propriamente detta del film e molto di L’altra faccia del vento è stato letteralmente improvvisato in scena, anche a seconda delle disponibilità economiche e degli attori. Welles è stato capace di imbrigliare per circa 5 anni alcuni tecnici (emblematico l’impegno e i sacrifici dell’operatore Gary Graver) e interpreti (fra il 1970 e il 1975, Bogdanovich ha lavorato a due ruoli differenti, uno dei quali è scomparso in seguito a esigenze maturate in fase di produzione).

Nel complesso, per il pubblico, questo film di Welles è un’esperienza molto impegnativa. Il pastiche di diversi stili e accorgimenti tecnici che contraddistinguono le varie parti che compongono L’altra faccia del vento sa essere molto respingente. E, vista anche la natura mockumentaristica del film, persiste e si autoalimenta la sensazione che, nel montaggio finale, manchi qualcosa. Nonostante la sua apparente frammentarietà e un sotteso simbolismo, il film di Welles è narrativamente compiuto e centra perfettamente il suo obiettivo critico, mettendo in scena una Hollywood disfatta che, altrove (vedi Wilder con Hollywood Party) muove al sorriso, e che, qui, è un girone infernale abitato da simulacri di un’epoca passata e costellato di pose e aforismi pronunciati da cadaveri ambulanti.
Difetta palesemente, invece, della presenza di Orson che, pure, è stato onnipresente sul set come una vera divinità patriarcale: si pietrifica la domanda “Welles l’avrebbe davvero montato così”? Come per Hitchcock, Ėjzenštejn e Kubrick, per Welles il lavoro di montaggio era l’elemento fondante di un film, l’essenza della narrazione stessa. Avrebbe accettato questa versione? Credo che il suo ego elefantiaco sia sceso a un compromesso lancinante, quando ha scelto di affidare a Bogdanovich la sua eredità.

Netflix è riuscito a concepire un’operazione erculea ed estremamente interessante benché straniante e, oso dire, blasfema (la mia non è una critica, ma una constatazione): paradossalmente, L’altra faccia del vento è solo la punta dell’iceberg. Il film, infatti, non può essere scisso da almeno altre due produzioni originali della piattaforma: l’eccellente documentario Mi ameranno quando sarò morto (They’ll Love Me When I’m Dead) di Morgan Neville https://www.nientepopcorn.it/film/theyll-love-me-when-im-dead/ e un altro illuminante documentario, A Final Cut for Orson: 40 Years in the Making di Ryan Suffern https://www.nientepopcorn.it/film/a-final-cut-for-orson-40-years-in-the-making/
L’altra faccia del vento non è esattamente un film di finzione, ma una forma originale e stimolante di documentario sul cinema che, ora, forma un preciso trittico insieme ai lavori di Neville e Suffern. Welles non aveva concepito il suo film in questa maniera “condivisa”, eppure funziona perfettamente inscritto in questo meccanismo e, forse, oggi, non potrebbe sussistere in autonomia. Ecco perché parlo dell’assenza palpabile di Orson: pur avendo concesso visibilità mondiale a L’altra faccia del vento, Netflix l’ha inglobato in un altro progetto, di fatto enucleandolo dal suo bozzolo esclusivo e autoriferito. Netflix, insomma, sembra aver temuto che, così com’è stato assemblato (sicuramente, non l’unico modo possibile, dato che, a questa versione, oltre a parti del sonoro e dei dialoghi, sono state aggiunte in post-produzione, le -belle- musiche orchestrali e jazz di Michel Legrande e alcune scene neppure girate da Welles), il film potesse risultare incomprensibile. Welles si sarebbe preoccupato di “giustificare” il suo lavoro, qualunque sarebbe stata la sua forma finale?

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