Recensione su The Neon Demon

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M / 30 Settembre 2020 in The Neon Demon

Winding Refn retrocede e fa un film che avrebbe potuto dirigere Gaspar Noé (che non sia un complimento mi sembra evidente).
Di una bellezza estetica quasi opprimente, lo spettacolo luminoso e ammaliante risulta in realtà un buco nero talmente vuoto da far quasi gridare al miracolo (è incredibile fare quasi due ore di film senza dire nulla).
Dei ventimila simboli di cui è piena la pellicola solo uno funziona davvero: la truccatrice che lavora anche all’obitorio (molto più che la necrofagia finale un po’ ovvia). Il mondo della moda dunque come sepolcro, come propaggine mortifera della società, come pura manifestazione post mortem. Peccato che il regista danese ne resti intrappolato e il suo film si appiattisca fino a essere ciò che vorrebbe mettere alla berlina.

3 commenti

  1. Stefania / 30 Settembre 2020

    Non sono del tutto convinta che Refn voglia mettere alla berlina “qualcosa”, con questo film. Il suo scopo è mettere in scena una certa forma di bellezza, ideale e patinata, contemporaneamente mostrando- banalmente, se vogliamo – come l’esaltazione spinta della bellezza nasconda varie forme di “bruttezza” e che la prima non può esistere senza la seconda, come in Natura (es.: servono letame e organismi in decomposizione, per far crescere un fiore di rara bellezza). Non condanna: parla di qualcosa (a modo suo, modo che può piacere o meno, beninteso).

  2. Catoblepa / 30 Settembre 2020

    Nonostante la freddezza, che è un po’ la cifra di Refn (anche nelle opere migliori, come Drive), secondo me non c’è distacco in questo film e la condanna a quel mondo mi pare plateale. Tutti i personaggi che orbitano attorno al mondo della moda sono delle merde, modelle, fotografi o agenti che siano, persino la truccatrice che per tre quarti del film appare come la paladina, persino la protagonista stessa all’inizio tanto fragile e candida e che più si addentra in quell’ambiente più diventa narcisista (il suo ultimo discorso, quello fatto dal trampolino, è pura vanagloria). Non per caso, l’unico personaggio positivo è il fotografo con non ce la fa, che rimane ai margini della moda, forse perché mediocre nel suo lavoro o forse proprio perché un puro (vedasi il dialogo al lounge bar). Per me è un j’accuse neanche troppo velato: il vero problema è quanto sia riuscito.

    • Stefania / 30 Settembre 2020

      Non so… Il j’accuse non lo vedo: a me, in questo film, Refn pare un entomologo intento a documentare un fenomeno “naturale”, perciò (a suo modo, ribadisco), il film mi sembra una rappresentazione oggettiva (e, con questo, non intendo fredda, per quanto le sue messinscene lo siano). In questo senso, per esempio, “il fotografo che non ce la fa”, è l’animale debole che soccombe a una legge di natura.
      Comunque, entrambe le letture del film reggono, secondo me. Solo che, personalmente, per quanto la ritenga plausibile, fatico a vederci per forza una rappresentazione volutamente critica di un certo contesto.

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