Recensione su The Neon Demon

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L’eccesso che eccede / 12 Giugno 2016 in The Neon Demon

Si può far finta che la trama non conti, che la sceneggiatura non sia fondamentale, che l’assenza sia un elemento riempitivo della storia, che l’estetica basti a sé stessa, e che la narrazione si strutturi per vuoti. A volte sì, si può far finta: ci sono film ai quali non è richiesta una sceneggiatura complessa, ma semplice ed ordinaria, una trama conclusiva e corretta nelle regole della narrazione, cioè quei film volutamente “persi” in territori ludici e sensorialmente sovraccarichi, dove il linguaggio della settima arte, inteso a renderne la purezza, quindi l’essenza originaria, basta e sublima ogni aspetto, tanto da diventare esso stesso significato dell’opera. Ma non è il caso di “The Neon Demon”, ultima opera di Nicolas Winding Refn, regista danese che, oggi, e alla luce di questo ultimo lavoro, definire geniale e visionario risulta riduttivo. “The Neon Demon”, infatti, per dirla in modo spicciolo e diretto, e per intenderci senza troppi rigiri di parole, non è “Mad Max-Fury Road”, e cito uno degli ultimi esempi di quel genere di film sopra indicato: non ne ha le intenzioni, né quindi l’approccio perché non può classificarsi come cinema d’intrattenimento. Ergo ha bisogno di una trama che sia tale (una “tessitura” di eventi, azioni che rispondano ad un senso preciso), di una sceneggiatura che non sia banale, soprattutto nei dialoghi e nella tenuta a tutto tondo dei personaggi (non solo psicologica, ma anche “esteriore”, “frontale”). Ecco allora che “The Neon Demon” si avvicina così pericolosamente ad un tipo di cinema che sembra andare addirittura oltre il postmoderno, oltre l’astrazione stessa, verso una poetica da video-installazione dove l’estetica dello sguardo non accetta e comprende più sé stessa come causa e scopo, ma resta sospesa dentro un vuoto che è concezione esclusivamente egoistica del suo autore.

C’è sicuramente un cinema che sta anticipando i tempi, e di recente Malick, Lynch, Carax, ce ne hanno reso testimonianza tanto da farci sentire dei privilegiati. Anche Refn ha dentro di sé una forza sovrannaturale che lo spinge involontariamente a concepire un cinema per il cinema (portare al centro dell’inquadratura il cinema stesso), o l’arte per l’arte, abbattendo i soliti schemi, e esplorando nuove terre, ancora illibate. Ma se con “Drive” (2011) era riuscito a tenere questa forza propulsiva incanalata in un percorso coerente, con “The Neon Demon” vi riesce solo nella prima parte del film, eccedendo poi in tutta la parte finale: ciò che eccede è l’eccesso stesso. Ed è quantomeno contorto affermarlo. Ma è così. L’eccesso di per sé non è sbagliato, Refn lo ha sempre instillato nel suo cinema, in una forma aggressiva, ultramoderna, compatta, perciò impeccabile: lo ha fatto violentando l’immagine, ma raccontando la stessa realtà, lo stesso mondo, gli stessi contrasti di luce ed ombre, di bene e male, che popolano la narrativa da sempre. Ma nella storia di Jesse, giovanissima modella georgiana interpretata dalla magnetica Elle Fanning (inusuale vederla in un ruolo così complesso), arrivata a Los Angeles per trovare il successo nel campo della moda, e nella sua conseguente trasformazione da personaggio incontrastato in demone subdolo e sottilmente distruttivo, questa poetica dell’eccesso eccede, liquefandosi e diventando qualcosa perciò di incontrollato, soprattutto per lo spettatore.

A “The Neon Demon” manca una compattezza di sceneggiatura, manca la forza della storia, capace di alzare degli argini: che poi possano essere anche muri di un labirinto intricato poco importa. E il rimpianto è tutto qui, perché bastano poche sequenze, come quelle iniziali, per inchinarsi di fronte ad un autore come Refn, capace di far collimare in vette cinematografiche non conosciute e inesplorate, scelte registiche invidiabili, dentro un ordine di linguaggio stilizzato e di una messinscena gelida e folgorante, grazie alla solita fotografia curatissima, e in questo caso stroboscopica e suadente, grazie alle solite musiche elettroniche da palpitazione. Di questi frammenti ne troviamo traccia per l’intera durata del film: preso a pezzi “The Neon Demon” è elegantemente perfetto. E vero testimone di quella Bellezza che vuole decantare, anche in tutte le sue eccessive accezioni. Cioè qualcosa che veramente “violenta” lo sguardo dello spettatore, uno sguardo che nell’occasione si scopre, miracolosamente, nuovamente verginale. Ma nella sua interezza il puzzle non funziona. Se in altri suoi film alla “redenzione” (a volte rappresentata da un personaggio pulito e puro, a volte da un evento) veniva lasciato un importante riscatto, questa volta viene brutalmente (ma anche malamente vista la sconfortante banalità del dialogo) allontanata, dopo che aveva cercato di porre l’attenzione su una bellezza tutta interiore, per bocca dell’amico di Jesse. È un ripudio definitivo, ma forse inaccettabile di quell’interiorità (non per forza di contenuti o messaggi, ma anche semplicemente intesa come scheletro e muscolatura) che una sceneggiatura altrettanto “forte” avrebbe potuto dare al film, capace cioè di conferirgli un equilibrio nelle fondamenta, per impedire, a lui e a noi, di addentrarci in territori dove quella Bellezza è solo un corpo freddo, inanimato, sterile, e violentato, infine, dallo sguardo dello spettatore. Inerme. E costretto.

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