Recensione su L'uomo che uccise Don Chisciotte

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Il senso dell’atto creativo / 1 Ottobre 2018 in L'uomo che uccise Don Chisciotte

Gilliam ce l’ha fatta e, a un paio di decenni (quasi tre), dall’inizio del “progetto Don Chisciotte”, ha portato al cinema quello che, nel frattempo, è diventato il suo film maudit.
In un cortocircuito metacinematografico che lavora su due piani al quadrato (realtà e finzione, nella realtà e nella finzione) e in cui è impossibile non ravvisare voluti echi biografici, L’uomo che uccise Don Chisciotte è la rappresentazione di un’ossessione e di un sogno.
Perciò, è inevitabilmente imperfetto.

Sono tali anche altri lavori di Gilliam, ma, in vari casi, a mio parere, l’indeterminatezza e la confusione che contraddistingue certi suoi progetti ha condotto a più efficaci risoluzioni di questa.
Nell’urgenza, nel bisogno, nella intima necessità di declinare la storia di Cervantes come se fosse un paradigma della propria vita, Terry Gilliam s’è smarrito alla pari dei protagonisti, il calzolaio folle che cede definitivamente alla fantasia e il regista disilluso che accoglie benevolmente la stessa maledizione.
La follia, ovvero l’assenza di senno (quello che, Ariostamente parlando, fugge sulla Luna, un viaggio che Gilliam ha sempre amato raccontare, se non accennare), diventa un’ambizione.

Il Don Chisciotte di Gilliam offre splendidi spunti narrativi e turba nella rappresentazione romantica della pazzia, ma soffre di un’architettura del racconto slabbrata, casuale, puerile, simile a quella imbastita dai bambini che, giocando, sviluppano una storia improvvisandone le svolte a seconda delle necessità del momento.
Purtroppo, qui, l’improvvisazione risulta più un impiccio che un pregio cinematografico. Questo smarrimento narrativo è evidente nell’inserimento di forzature (la storia del terrorismo islamico, in particolare), nella inesistente caratterizzazione dei personaggi e nella relativa resa degli interpreti, evidentemente incerta (Driver s’affanna a rincorrere Gilliam, Joana Ribeiro è palesemente inadatta a incarnare una Musa del peso richiesto, Skarsgård e la Kurylenko non pervenuti). In questo senso, salvo solo la prova di Jonathan Pryce che, supportato dalla giusta “triste figura”, incarna molto efficacemente la disperazione di un uomo che pare consapevolmente imprigionato nella propria condizione di folle prescelto (“Non posso morire” dice molto semplicemente, ed è una piena ammissione di infelicità del personaggio letterario e dell’uomo ossessionato dal mito).

Probabilmente, la mie considerazioni sono fredde e ingenerose, ma ho trovato molto più concluso ed efficace a rappresentare la fissazione di Gilliam il documentario Lost in La Mancha (2002), relativo alla prima lavorazione del film, quella con Rochefort e Johnny Depp. Gilliam ha voluto insistere, ha lottato per anni contro la sfortuna e le beghe legali, pur di realizzare L’uomo che uccise Don Chisciotte, ma ne è valsa la pena?
Se proprio devo riconoscere un merito a questo film, è quello di aver (ri)sollevato una questione importante che, con altri toni e altri modi, hanno affrontato recentemente anche Aronofsky (Madre!) e P.T.Anderson (Il filo nascosto): il senso dell’atto creativo, la paternità dell’Arte e la fruizione di un’opera (Gilliam ha fatto questo film per sé, per il pubblico o per entrambi?).

3 commenti

  1. paolodelventosoest / 1 Ottobre 2018

    Eheh il mio voto è il tuo, però esattamente girato al contrario: un sonoro 9!
    Ed è tutta al contrario anche la mia visione delle cose che tu citi come limiti! 😀 Le improvvise svolte narrative mi hanno trascinato, portandomi a spasso come in un sogno; l’architettura del racconto simile a un gioco di bambini, beh wow fantastica immagine, e come non amare un gioco di bimbi? La caratterizzazione del calzolaio/Chisciotte per me è perfetta, come perfetta la prova di Adam Driver. L’innesto del terrorismo islamico l’ho trovato geniale, con la paura di manifestare la propria religione, una attualizzazione dell’inquisizione. Sono d’accordo solo sull’inconsistenza della Ribeiro, peccato non aver puntato su un’attrice più intensa. Questo per me è il risultato migliore che si potesse avere dall’eredità di Lost in La Mancha, e Pryce si è rivelato perfino superiore a quel Rochefort che ho sempre visto come inarrivabile maschera del Chisciotte

  2. mgcgio / 25 Ottobre 2018

    L’unica cosa che davvero non mi è piaciuto di questo film, sono i personaggi femminili. Le ho trovate davvero ridicole.
    Per il resto, mi è piaciuto molto. Magari la trama è a tratti forzata, ma poco importa: lo “spirito” è quello giusto, mi ha fatto proprio sentire il dramma del “Chisciotte” (che è una figura profondamente tragica, già nel romanzo di Cervantes, pur nella sua grottesca comicità, qui ben replicata). E, sotto l’aspetto visivo, ha varie scene appaganti.

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