Action allo stato dell’arte / 9 Maggio 2015 in The Killer

Jeffrey (Chow Yun-Fat) è un killer a fine carriera che acceca per sbaglio una cantante (Sally Yeh) e decide di prendersene cura senza rivelarle la sua identità.
Nel frattempo il giovane ispettore Lee (Danny Lee), in rotta coi superiori, gli dà la caccia senza riuscire a catturarlo.
Ma, quando entrambi avranno perso il proprio miglior amico per mano d’una banda di gangster, sbirro e delinquente si ritroveranno alleati nella battaglia finale. L’epilogo sarà tragico e per nulla scontato.

Il mio film preferito, capolavoro del genere “heroic bloodshed” (eroico spargimento di sangue), nome dato da un critico inglese per etichettare un filone nato ad Hong Kong negli anni ’80: un mix di action, noir e melodramma ad altissimo tasso adrenalinico che influenzerà tutto l’action movie occidentale del decennio successivo fino ad oggi.
Uscito nel 1989, s’impose nei festival di tutto il mondo, diventando un cult per cinefili e addetti ai lavori (Rolling Stone lo definì “Travolgente”, David Cronenberg, in quell’anno presidente del Toronto Film Festival, lo classificò come “Grande Cinema”), ma rimanendo sostanzialmente sconosciuto al grande pubblico, convinto che ad Hong Kong fossero rimasti ai filmetti di kung-fu degli anni ’70.
Il che fece la fortuna di un’infinità di registi occidentali che si sono fatti la fama di “autori” scopiazzandolo a piene mani (vero, Quentin? vero Luc?).
Scritto e co-sceneggiato dallo “Spielberg d’Oriente” Tsui Hark, The Killer ha consacrato John Woo (Face/Off, Mission:Impossible2) come il più grande regista d’azione al mondo, e Chow Yun-Fat (Anna & the King, La Tigre e il Dragone) come uno dei più celebri attori asiatici.
Parte come fosse un remake di Frank Costello Faccia d’Angelo, di Jean-Pierre Melville con Alain
Delon, ma l’elogio dell’amicizia e dell’onore proviene dai classici di John Ford e Akira Kurosawa,
il senso di colpa da Martin Scorsese, la violenza epica da Sam Peckinpah (Il Mucchio Selvaggio, Pat Garrett & Billy Kid) e Sergio Leone (c’è pure l’armonica di C’Era una Volta il West), il rapporto speculare tra sbirro e criminale è esplorato meglio che in Heat-la sfida di Michael Mann, e l’abbraccio finale riprende quello tra Gregory Peck e Jennifer Jones in Duello al Sole di King Vidor.
Ma al tempo stesso, in mezzo a tanto citazionismo, Woo sfoggia il suo stile fiammeggiante e (come ho già detto) vanamente imitato da molti: le “double gun actions” (dove si spara con due pistole contemporaneamente mentre si sta cadendo) ed il “mexican stand-off” (l’incontro ravvicinato dove due o più persone si puntano l’arma a vicenda) sono infatti i suoi “marchi di fabbrica” ripresi da Quentin Tarantino (Le Iene), Luc Besson (Lèon), Robert Rodriguez (Desperado), i fratelli Wachowski (Matrix), e tutti gli altri registi occidentali degli anni ’90, ma anche da serie animate giapponesi come Cowboy Bebop e Black Lagoon.
Fatica sprecata: perché solo nei film di Woo le sparatorie sono esagitate e barocche fino al surreale, e il montaggio, a furia di osare e puntare alto, fa sfigurare al solo confronto qualsiasi pellicola americana.
Ma diverso è anche il modo di intendere la violenza: se per gli occidentali è un cieco sfogo di rabbia autodistruttiva, per il luterano Woo è invece un sacrificio necessario per aiutare gli amici, ricostruire i valori cavallereschi che sembravano perduti, e trovare così la redenzione.
Ecco il perché del bagno di sangue finale ambientato all’interno di una chiesa, con tanto di colombe bianche che rappresentano il sacrificio supremo della Pasqua.
Certo, un tale spudorato sentimentalismo può apparire stucchevole ai palati occidentali, abituati al cinismo di Tarantino e agli “allegri massacri per tutta la famiglia” di Mel Gibson, Bruce Willis & Company. Ma il respiro è genuinamente epico e travolgente.
Fondamentale come sempre l’apporto del montatore David Wu (Il Patto dei Lupi), e del coordinatore degli stuntmen Ching Siu-Tung (Hero, Storia di Fantasmi Cinesi).

(scritto di mia proprietà, presente anche altrove)

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