M / 1 Dicembre 2020 in The Irishman
Come spesso, la prima sequenza, scena o inquadratura può svelare un mondo. La steadycam di The Irishman percorre i corridoi di un ospizio come quasi 30 anni fa, in Quei bravi ragazzi, percorreva le stanze di un ristorante: lì c’erano musica ritmata e ballabile, un movimento sinuoso e veloce, a un passo dalla frenesia; qui il passo è quasi solenne, con un’ombra di impaccio. La criminalità colta al suo apice e il suo crepuscolo ormai quasi spento. In questo caso, la macchina da presa di Scorsese sembra impegnata in una soggettiva: a chi racconta la sua storia Robert De Niro, chi guarda?
La dinamica dello sguardo, d’altronde, è al centro del film stesso, hitchcockianamente dagli sguardi, da chi guarda e chi è guardato, dallo sguardo ricambiato o meno passa gran parte dell’intreccio a dispetto del dialogo: al cinema l’occhio conta più della parola (e il tentativo di De Niro di farsi guardare dalla figlia al funerale della madre è straziante come l’appuntamento mancato di L’età dell’innocenza). E allora contano anche le figure più classiche, come il campo/controcampo, che hanno formato la costruzione del senso al cinema: quando De Niro deve dire a Pacino, ovvero Jimmy Hoffa, che la mafia lo ha scaricato, Scorsese sottolinea la differenza di posizione tra i due con la semplice angolazione della camera, per cui Pacino è ripreso dall’alto, schiacciato anche se ancora combattivo, De Niro dal basso anche se non vorrebbe essere nella posizione di colui che schiaccia.
E così il modo in cui la macchina da presa riprende i gesti (i dettagli delle vecchie mani inanellate), gli eventi e i personaggi rende l’ultima ora o poco più del film una delle cose più belle mai realizzate da Scorsese. È proprio quel dialogo di cui dicevo sopra la cesura: da quel momento la saga criminale diventa una lenta, inesorabile, spietata ma dolente marcia funebre proprio per virtù di stile, per l’uso della macchina da presa. Il ritmo rallenta, la musica si spegne, Scorsese inquadra i propri personaggi di fronte o dall’alto, rende rituali i movimenti, accompagna i fantasmi che hanno costellato la visione (tutti i personaggi sono già morti, ce lo dicono dalla prima scena le didascalie) al loro incontro fatale. Con la morte, o peggio con la vecchiaia, la solitudine, l’oblio. Se il western è l’epica americana, il gangster movie ne è la tragedia. The Irishman ne è la trenodia, soprattutto perché parla dell’essere umano prima che del criminale.

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