Recensione su The House of the Devil

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The House of the Devil
Regia:

The House of the Devil: la paura fa Ottanta / 12 Febbraio 2015 in The House of the Devil

Ricostruzione d’ambiente stre.pi.to.sa.: i primi anni Ottanta, qui, sono stati ricostruiti in maniera ineccepibile.
Non conoscere la data di produzione di questo film, perciò, potrebbe trarre facilmente in inganno: non si tratta della mera riproposizione di abiti e pettinature d’epoca, né della presenza di una serie di impeccabili brani originali “a tema” inclusi nella colonna sonora, ma di “respiro”, di totale adesione ad un’atmosfera (emblematica, benché tra le più elementari, la scena à la Risky Business con Sam che esplora la casa ballando).

Mi sento di non esagerare nell’affermare che l’uso di taluni spazi architettonici e le relative inquadrature mi hanno ricordato la “pulizia” fotografica e lo “sguardo” ricorrente in Shining di Kubrick (non a caso, distribuito nel 1980).
Praticamente in ogni scena, con movimenti di macchina virtuosistici ma discreti, l’ambiente costruito precede la comparsa del(la) protagonista: solo apparentemente asettico ed impersonale, è lo spazio costruito a definire l’architettura della paura di questa pellicola.
La dimora perturbante è tale non solo perché, fin dal titolo, racchiude l’orrore, ma soprattutto perché nel suo silenzio è, ovviamente, muta testimone e complice di indicibili aberrazioni. Benché naturalmente immobile, la casa palpita letteralmente di segreti e trasuda una tensione che si concretizza in scricchiolii, cigolii, tenebre improvvise. Ci sono innumerevoli porte di cui non si conosce la destinazione, angoli bui non raggiungibili con lo sguardo, un seminterrato ed una soffitta: la struttura e l’aspetto esterno dell’edificio sono quelli di una casa di bambole, ma essa non ha nulla di sognante e poetico. Eppure, questa accezione orrorifica le deriva esclusivamente dall’ambiguità dei suoi occupanti: la loro palese pericolosità si riflette sul costruito.
In questo senso, quindi, e nella capacità di costruire la tensione senza mostrare effettivamente nulla, il film di Ti West è davvero impeccabile.

Tutto tracolla, purtroppo, negli ultimi venti minuti di pellicola: dacché il mistero viene svelato, la classe della regia mostrata fino ad allora scompare con uno schiocco di dita, cambiano il ritmo e la qualità del racconto, nonché la “purezza” tanto decantata delle inquadrature, con una regressione narrativa, tecnica ed estetica in-credibile.
Voluto o meno, a mio parere questo scarto penalizza irriducibilmente una pellicola altrimenti fascinosa come poche tra gli horror di recente produzione.
Peccato.

Due parole sul cast: Tom Noonan (Mr. Ulman) è stato uno dei migliori serial killer degli anni Ottanta, l’impressionante Dolarhyde di Manhunter di Mann; Greta Gerwig (Megan) è una delle rivelazioni del cinema indie americano, musa di Noah Baumbach (Frances Ha, Greenberg); Dee Wallace (la padrona di casa)… eh beh! Frequentatrice dello slasher d’oro (Le colline hanno gli occhi di Wes Craven, Critters, Cujo) è pur sempre la mamma single di E.T..

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