Recensione su Il Grande Gatsby

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UN GATSBY CORAGGIOSO, SFUGGENTE, IMPERFETTO / 20 Novembre 2013 in Il Grande Gatsby

Ancora una volta, Luhrmann erige il suo enorme palco impazzito, caleidoscopico, visionario. E lo fa in un contesto – quello dei “ruggenti anni Venti” – che, in potenza, ben si presterebbe all’esplosione satura di colori, alla fotografia tanto eccessiva quanto patinata. Una fotografia caratteristica anche dei precedenti lavori del regista, sebbene mai a questo livello esplosivo. Come se non bastasse, l’intero carrozzone viene amplificato, ingigantito, esasperato tramite l’ausilio di un 3D che stavolta, miracolosamente, riesce a non infastidire e finanche a piacere.
Ecco quindi che, nella prima parte del film, con la macchina da presa che a stento imbriglia l’energia vorticosa delle feste nella villa di Gatsby, Luhrmann sfoggia un vortice di elementi i quali, tutti assieme, rendono il prodotto grossolano, o per meglio dire, caotico, pacchianotto e oltremodo kitsch: ma è proprio il marchio di fabbrica di Luhrmann. Lavora così, lo si ama o lo si adora, o in ogni caso, andando a vedere un suo film, ce lo si deve aspettare.
La carenza più grande risiede nel non aver accompagnato le sequenze delle feste ad una musica adatta – non per realismo, ma quanto meno per bellezza, per un valore estetico-uditivo, attraverso cui il velo surreale che copre tutte le opere del regista s’impreziosirebbe senz’altro di volta in volta (benché forse ancora nel postmodernismo di “Romeo + Giulietta” la colonna sonora sia giustificabile). Di fatto, questa musicaccia pop del tipo più becero – che nella seconda parte del film cede il passo, con maggior frequenza, ad una colonna sonora convenzionale – non c’entra niente col contesto. Molto più giustificata sarebbe stata la presenza di colossali complessi Jazz, così come il romanzo di Fitzgerald descriveva. Così, invece, si rischia di scivolare nell’ennesimo smisurato giocattolo-videoclip; mentre, con le dovute correzioni, e appunto con la musica adatta, il montaggio frenetico non avrebbe corso il rischio di una simile accusa, poiché tutto avrebbe contribuito a rendere omaggio al ritmo, alla velocità e alla frenesia autentica degli anni Venti, in corsa verso il baratro del ’29.
Tranne qualche sequenza e alcuni dettagli, la fedeltà al capolavoro di Fitzgerald è indubbia, anzitutto nello spirito della narrazione. La rovinosa caduta del sogno americano viene qui metaforizzata, racchiusa nella figura chiaroscura di Gatsby, nel suo slancio colmo di speranza, ma illusorio, a tratti delirante, automistificante e autodistruttivo. Di Caprio trasmette egregiamente tutta l’artificiosa grandezza, la sperduta fragilità, il camaleontismo di una nazione accecata dalla propria immagine fantasmagorica, le cui macchie vengono nascoste dalla troppa luce (verde?).
Carraway, interpretato da un simpatico Tobey Maguire, perde forse un po’ troppo la dimensione bigotta e moralistica che lo contraddistingue nel romanzo; ma le parole messegli in bocca sono esattamente quelle di Fitzgerald, del quale, nella deriva alcolizzata e depressiva, lo stesso Carraway diviene un alter ego.
Daisy, che ha i lineamenti delicatissimi e puerili di Carey Mulligan, appare sfuggente, malinconica, altalenante, emblema di una femminilità incerta, mai salda, mai netta, mai autonoma. E in questo la Mulligan compie un ottimo lavoro.
Purtroppo, per quanto è stato pubblicizzato, “Il grande Gatsby” attirerà un certo tipo di pubblico contro il quale duramente cozzerà il finale riflessivo, meditativo: un pubblico su cui le parole di Fitzgerald, fedelmente trasposte e rievocate tramite giochi di sovrimpressione e dissolvenze, scivoleranno inerti senza lasciare i giusti germogli, così come Gatsby farà con le vite di ognuno, se non quella di Carraway. Ma questo, come già accadde col romanzo di Fitzgerald nel 1925, è un problema di recezione e di assimilazione non imputabile all’opera in sé, quanto, nel 1925, all’incapacità di autoanalisi dell’America, ed oggi alla pubblicità parossistica che se n’è fatta.
VOTO: 7.

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