Recensione su Furore

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Furore
Regia:

5 Settembre 2014

The Grapes of Wrath
John Ford.

Nel ’39, John Steinbeck pubblicò il romanzo “The grapes of wrath”. La critica fu subito concorde, era un capolavoro. Il romanzo è il simbolo della grande depressione americana degli anni trenta. È considerato un’opera a sostegno della politica del New Deal di Roosevelt e fece ottenere al nostro un premio Pulitzer. Vintolo, l’autore cedette i diritti a Darryl F. Zanuck ovvero uno dei produttori cinematografici più potenti nonché il presidente della 20th Century Fox. L’antefatto di “Furore” è tutto qui, da questo momento il testimone verrà passato in mano a John Ford, IL regista di punta del produttore il quale realizzò una significativa opera sugli anni 30 e sulla Grande Depressione. Ad oggi possiamo dire che non potevamo metterci in mani migliori perché quello che vedrete analizzato in “Furore”, oltre ai mali dell’epoca, è il percorso di una famiglia/popolo verso l’Ovest. Quindi ? Si riprende moltissime del mito della frontiera, dello spostamento ad ovest, in chiave malinconica e crepuscolare. Non c’è l’epica del west, della speranza di Capra non vi è neppure l’ombra. Il realismo, di cui è pregna l’opera, è cupo. Il film è sociale e la massa sicuramente in quegli anni si è identificata nei vari personaggi dell’opera.
Ambientato nei primi anni ’30, con Henry Fonda come protagonista (Tom), il film descrive lo squallore e i soprusi subiti da una famiglia americana che aveva tutto e che si ritrova con niente. L’attore simbolo del film è, senza dubbio, Henry Fonda ma non è da sottovalutare il ruolo materno di Jane Darwell una donna risoluta, dal carattere forte che alla fine del film inneggia alla massa. Perché questo film, e credo anche il romanzo, è un inno glorioso al popolo. Un invito a non cadere, non arrendersi nei momenti di crisi, non chinare il capo ed andare avanti. La vicenda è quasi biblica, è un’epopea, è un’Odissea senza cantore cieco. E’ devastante come devastante è la trasmigrazione della famiglia in esame. Attenzione, la famiglia Joad non è una famiglia a caso, è la famiglia in generale che affronta la grande depressione (o la crisi attuale, se vogliamo). , come lei moltissime altre sono costrette ad abbandonare la propria fattoria nell’Oklahoma a bordo di un autocarro e tentare la fortuna, sperare per un futuro migliore in California. Sfrattati dalle case dove avevano vissuto per generazioni perché le banche a cui avevano chiesto i prestiti non rinnovano i crediti e confiscano i terreni spedendo le “trattrici” (i banditi del far west che assaltano il villaggio o la proprietà privata) a spianare tutto, comprese le abitazioni in legno, si incamminano. All’inizio del film ancora non siamo nel “road movie”, l’incipit è dedicato a Henry Fonda. Lo spettatore viene così a conoscenza di Tom, un ex detenuto rilasciato sulla parola con un permesso speciale del carcere. Qui aveva da scontare sette anni per omicidio, tre anni dei quali sono stati condonati. Ritorna a casa e quello che trova è un paesaggio arido, privo di anima, nel quale degrado e povertà fanno da padroni. Il bianco e nero del film è greve e straordinario allo stesso tempo, cattura alla perfezione la desolazione, lo sporco. Una desolazione che sembra quasi presagire la miseria in cui naviga la famiglia. Senz’altra scelta carica i nonni ed i familiari su un camion e dall’Oklahoma partono verso la California con le loro poche cose e la promessa di una terra fertile. Da questo momento comincia il road movie, quello che porterà la famiglia Joad ad attraversare le strade polverose dell’Oklahoma, del New Mexico, dell’Arizona, fino ad arrivare alla verdeggiante California. A spingerli laggiù è un volantino ingannatore perché quello che troveranno in California sarà solo altro sfruttamento. A compiere il viaggio sono tre generazioni delle quali l’anima del gruppo è la madre, donna-angelo che cerca di infondere positività ed umanità (divide il cibo con i bambini di un accampamento che avevano decisamente troppa fame). Il viaggio della speranza, nonostante sia caratterizzato da un forte tono messianico, simbolico, psicologico ma soprattutto sociale è legato a delle esigenze di sopravvivenza. E’ un percorso interiore solo in parte, hanno avuto coraggio nel partire, determinazione nel proseguire ma ai Joad non basta questo. Se non fosse per l’unità della famiglia probabilmente il gruppo sarebbe senza speranza, la sfida per arrivare in California comporta fame, lotte, miseria e salari bassissimi. Sfruttati nel proprio Paese, vedranno una serie di lutti ed assisteranno ad una seri di abbandoni. Eppure, dopo tanta sofferenza, dopo tanti incontri di famiglie che come loro emigrano, i Joad sono ancora fieri.

Indomabili, intrepidi, ribelli.
in una parola, Ford, in due, John Ford.

DonMax

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