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Un sogno chiamato Florida

/ 20177.5109 voti

Il morbo di Disneyland / 5 Maggio 2019 in Un sogno chiamato Florida

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Mi sono avvicinata alla filmografia di Sean Baker, partendo dalla… fine (per ora), benché da tempo fosse mia intenzione recuperare almeno Tangerine (2015), che mi risulta sia disponibile su Netflix.

Un sogno chiamato Florida, presentato in Quinzaine a Cannes 2017, è un dramma suburbano che ho apprezzato molto per due motivi in particolare.
In primis, la scelta del casting e la caratterizzazione dei personaggi. Sorvolo su Willem Dafoe (Bobby), plurinominato per questa (bella) interpretazione. Brooklynn Prince (Moonee) è credibilissima, intensa, simpatica e fastidiosa in maniera apparentemente molto naturale, la riuscita del film dipende molto dalla sua prestazione e dall’alchimia con Bria Vinaite (Halley… aspé, Moonie, cioè lunare, e Halley, come la cometa, quindi, se vogliamo, stellare: ci faccio caso solo ora!).
Tutti incarnano degli stereotipi, ma ciascuno di questi attori sembra trovarsi estremamente a suo (dis)agio nei panni del personaggio affidatogli e lo rende quasi tangibile. Nel corso del film, mi sono arrabbiata spesso con Moonie e Halley, ho provato pena per loro, mi sono chiesta perché la vita di Halley abbia preso questa piega, cosa abbia portato questa ragazza a essere così insolente, testarda e sola e perché non sembra accorgersi di stare crescendo una sua copia esattamente ingestibile. Insomma, da spettatrice, mi sono sentita un po’ Bobby.

Il secondo motivo che mi ha fatto piacere molto il film di Baker è la messinscena di svariate teorie dell’architettura e dell’urbanistica. Non parlo solo del concetto di non-luogo di Augé. Ma, soprattutto, degli argomenti trattati da Robert Venturi nel saggio Learning from Las Vegas (1972), con particolare riferimento ai temi della strip e delle definizioni postmoderniste di denotativo e connotativo. La periferia di Orlando, Florida, in cui si svolge il film si trova poco distante da Disneyland, il Paese delle Meraviglie in Terra, secondo le intenzioni di Walt Disney (vedi: https://www.nientepopcorn.it/notizie-approfondimenti-cinema/tematici/il-paese-delle-meraviglie-riflessioni-sul-mondo-di-walt-disney/). Nella pratica, l’esperienza nel parco è capace di rivelarsi ben poco meravigliosa, come suggerisce l’inquietante film Escape from Tomorrow (2013) di Randy Moore.
Moonee & C. gravitano intorno a questo non-luogo senza riuscire ad avvicinarvisi, come se il parco fosse realmente incantato e, perciò, irraggiungibile, ma ne rimanengono influenzati a livello psicologico, formale ed estetico, poiché vivono all’interno di una pacchiana riproposizione dell’illusione del parco diffusa ed esplosa sulle sponde di una superstrada trafficata.
Per esempio, il motel in cui vive la bambina ha le sommità merlate come un castello ed è dipinto di viola, il mondo di Moonee e Halley è perennemente fluorescente (come quello di Spring Breakers di Harmony Korine, 2012, non a caso ambientato ancora in Florida), pieno di glitter e unicorni, la strada che lambisce il motel porta a un’arteria che si chiama (più o meno) “via dei Sette Nani”. Però, la vita, qui, non è una favola. La “malattia” di Disneyland ammorba i dintorni, inzuccherando tutto, ma lasciando che ogni cosa marcisca sotto la glassa.

La sequenza finale non è liberatoria: per me, ha il sentore di un incubo. Moonee e la sua amica Jancey entrano di corsa nel parco, dirette verso l’iconico castello della Bella Addormentata. Cercano di entrare nella magia, una volta per tutte. Pare che la scena sia stata girata di nascosto, proprio come il citato film di Moore. La realtà entra di prepotenza nella finzione del parco e in quella del film. E, in quanto realtà, è più inquietante di qualsiasi finzione.

Nota a latere (ma non troppo): il titolo italiano è fasullo, inutilmente didascalico. Quello originale, The Florida Project, rende molto bene l’idea di un “piano” sociale legato a questa zona degli Stati Uniti. Non so se esista davvero una pianificazione a monte, ma, fin dalla prima metà del XX secolo, la Florida è stata dipinta come la terra delle arance divinamente succose in cui gli americani, dal gangster di New York in trasferta al pensionato che vuole morire al caldo vicino ai Caraibi, avrebbero potuto esaudire i loro desideri: sole, frutta e divertimento per tutto l’anno. Parlando in termini pindarici, se vogliamo, The Florida Project sembra suggerire una pianificazione di tipo governativo, militare, scientifica. Ma temo che il piano, se mai è esistito, è fallito.

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400 colpi a tinte fluo / 24 Aprile 2019 in Un sogno chiamato Florida

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Jean-Luc Godard una volta definì il capolavoro di Truffaut come “il film più libero del mondo”; forse nessun’altro come il cineasta parigino è mai riuscito a sublimare la poesia e la tribolata bellezza di quella breve ma intensa fase che segna il passaggio dall’infanzia agli albori adolescenziali. Il newyorchese Sean Baker mezzo secolo più tardi riesce (quantomeno a livello concettuale) nella titanica impresa di emulare quel Truffaut manifestamente preso a modello.
I tempi sono cambiati, i bambini di oggi crescono più in fretta, specie nelle periferie; Baker documenta gli ultimi sussulti di un’innocenza destinata a dissolversi ponendo letteralmente la macchina da presa all’altezza dei suoi giovanissimi protagonisti, seguendoli nelle scorribande delle torride giornate estive, in un degradato quanto coloratissimo sobborgo di Orlando, a due passi dal sogno materializzato per antonomasia, quel Disney World così vicino eppure così lontano.
The Florida project è un film di contrasti, di facciate fluo e castelli-motel che nascondono al loro interno storie di profondo disagio e squallore, di sofferenza e umiliazione quotidiana filtrata dalla lente incantata dell’occhio di una bambina che ignora ancora la brutalità del mondo che la circonda; un inno all’infanzia intriso di una vibrante e anarchica carica vitale, ma anche l’ennesima storia sulle contraddizioni del sogno americano.
Come nella tradizione del miglior cinema neorealista la denuncia sociale è presente ma velata, la vicenda è trattata con toni iperrealistici ma con piccole concessioni fiabesche; con l’estate è destinato a finire il sogno della magica infanzia, e come il giovane Antoine correva verso il suo mare, alla piccola Moonee, nella splendida e onirica sequenza finale, è concessa un’ultima corsa verso il castello dei sogni, una gioiosa marcia funebre per dire addio ad un’infanzia andata via troppo presto.

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The Florida project/Un sogno chiamato Florida / 8 Aprile 2018 in Un sogno chiamato Florida

Raramente si riescono ad ammirare opere cinematografiche capaci di trascinarti. E non con smielate o lacrime (eppure il soggetto si prestava molto bene). Ma semplicemente ammirando l’infanzia di chi si trova alla fine dell’ arcobaleno della società, e però non ce la fa a commiserarsi o a rattristarsi, e vive a pieno di chi e cosa si ha e guardando la disperazione con occhi felici. Perché Disneyland non è vivere nei sogni a volte ma scappare dalla realtà. Un film maturo ed adulto girato con gli occhi ad altezza di bambino. Un gioiello per gli occhi e lo spirito.

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