Recensione su La foresta di smeraldo

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11 Febbraio 2015

The Emerald Forest – la foresta di smeraldo è uno di quei titoli che dovrebbero passare almeno una volta al mese in tv. Oggi in pochi si cagano prodotti di questo genere: l’errore di base è lo snobismo. tirare dritto quando si parla di un certo tipo di cinema americano ( si l’autore è inglese ma ha lavorato per Hollywood) o ancora peggio darlo per scontato; sta di fatto però che una cosa è certa… John Boorman si riconferma un fabbro del cinema.

Chi conosce il cinema dell’autore sa quanto questo sia vero, sentito, rispettoso, anche quando partorisce prodotti poco riusciti come Zardoz. John Boorman ci mette l’anima, nella pellicola in questione osa. Proprio come l’aquila in computer grafica che invade lo schermo Boorman vola alto addentrandosi nella foresta amazzonica. Capite ? Nella fottuta foresta amazzonica, alla Herzog insomma, e dirige una pellicola che è fin troppo sottovalutata.

Basato sulla storia vera del figlio di sette anni di un ingegnere Peruviano rapito in Brasile nel 1972, bambino che anni più tardi, dopo il ritrovamento del padre, capeggiava una tribù indigena, The Emerald Forest è un poema affascinante sul conflitto fra la potenza della natura e quella dell’uomo, sulla nostalgia del paradiso perduto, la sfiducia della società occidentale. C’è spazio per tutto in questo film, un’opera che si muove fra ciò che è spiegabile dalla razionalità umana e ciò che non lo è affatto.

Il protagonista del film è Powers Boothe, l’attore interpreta Bill Markham un ingegnere Statunitense
responsabile di un importante progetto per la costruzione di una diga nella giungla amazzonica. Powers Boothe già protagonista de I guerrieri della palude silenziosa (di Walter Hill) prende parte nuovamente ad un film teso, sudato, magico.
Durante la costruzione della diga Markham assiste al rapimento del figlio di sette anni, Tommy, da parte degli indigeni. Cosa fa Boorman ? Riprende i bulldozer mentre distruggono la foresta, un’azione di routine per l’ingegnere americano e i suoi sottoposti un’azione terribile per i nativi, e l’affianca al rapimento/salvataggio di un bambino, una figura ancora innocente da quel tipo di società distruttiva. Durante la prima metà del film Markham investe dieci anni della sua vita per recuperare il figlio. La ricerca è folle, sembra scomparso, la famiglia è distrutta ma il piccolo cresce.. è il “popolo invisibile”, la tribù che lo ha rapito, a farlo diventare uomo. Tommy considera gli indios come la sua vera famiglia, pur conservando qualche vago ricordo del padre. Viene cresciuto come uno di loro divenendo presto un valoroso guerriero. Tommy o Tomme come viene ora chiamato, è parte della tribù e con questa condivide gli usi e i costumi. Suo padre ad un certo punto lo trova e scopre quanto sia cambiato. Da questo momento al climax emotivo si affianca un’altro tipo di climax: la tribù è minacciata non tanto dalla figura paterna (la società, il potere e l’uomo dietro la diga) ma da un clan rivale. Tomme chiede aiuto a Markham il quale fornirà una serie di fucili per fronteggiare la minaccia, si passa all’azione ma..

Il film mischia in modo saggio l’azione, una sparatoria finale degna dei migliori western, alle atmosfere oniriche, il regista si focalizza sui riti della tribù, scelta motivata dalla convivenza di un anno con gli indios della zona amazzonica dell’Alto Xingu, il rito di passagio dalla giovinezza all’età adulta sotto una cascata o l’impiego di droghe allucinogene ne sono validi esempi. Lo spettatore quindi vedendo The Emerald Forest partecipa ad un’esperienza, stringe rapporti con un clan che vive in una complessa struttura sociale e mistica, nella quale i sogni, le danze, i rituali, gli spiriti, il mondo dei sogni e la vita reale si fondono. Un film che vi straconsiglio.

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