ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama
Volenti o nolenti, metal e Belzebù vanno a braccetto dalla notte dei tempi, ma, raramente, si sono ritrovati vis à vis in maniera tanto esplicita come in questo The Devil’s Candy di Sean Byrne. In questo senso, è curioso che il lavoro di Byrne abbia iniziato a circolare nel 2015, lo stesso anno del neozelandese Deathgasm, ed è interessante notare quanto, pur partendo da sostrati analoghi, le due pellicole affrontino la materia con sensibilità molto diverse.
Entrambi i film si beano dell’estetica e dei topoi metal abbinati all’immaginario horror satanico, ma quello di Byrne, appena uscito nelle sale italiane, lo fa in maniera decisamente meno autoironica e demenziale (e, quindi, meno autoriferita, ma più fruibile anche da chi non nutre una passione sfrenata per il metal), tecnicamente più elegante e originale, a fronte -purtroppo- di un risultato complessivo non troppo convincente.
La tara che grava come un macigno sul film è quella narrativa. Il plot è risibile e inconsistente e mozza il fiato a un racconto che, forte di specifici dettagli d’ambiente, avrebbe potuto avere un respiro molto più ampio.
Il grande pregio del lavoro di Byrne, invece, sta nella rappresentazione dell’orrore e del Male decisamente atipica per un film di genere. Il film non eccede mai nella rappresentazione della violenza ed essa risulta più intuita che mostrata, anche grazie a una bella fotografia e a efficaci scelte di montaggio. Il sangue c’è, ma è davvero centellinato e Byrne non indulge mai in voyeurismi di alcun genere.
Risulta anche interessante il fatto che all’atto creativo e artistico venga associato sia il legame con il Male che il suo antidoto: purtroppo, questo spunto perda strada facendo la sua forza.
Bravo Pruitt Taylor Vince, perfettamente ambiguo nel ruolo di un bambino dalle abitudini psicotiche incastrato nel corpo di un adulto.
Colonna sonora (e font dei titoli) da cornalcielo ad libitum.
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