Recensione su La caccia

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Il capro espiatorio / 11 Maggio 2020 in La caccia

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Riflessioni sparse)

La caccia di Arthur Penn è un film ibrido, ambiguo e, a tratti, allucinato. Ha un piede nella Hollywood di maniera, e con quel piede le assesta anche un sonoro calcione, e un altro nella New Hollywood che, circa un anno dopo, lo stesso Penn avrebbe inaugurato (con il Mike Nichols de Il laureato), grazie a un film come Gangster Story (1967).

Questa natura incerta è sia il pregio che il principale difetto del film, che, pur mostrando chiari pruriti di insofferenza, dal punto di vista tecnico, attinge a piene mani dalla vecchia scuola (vedi, i precisi movimenti di macchina, oppure la fotografia nitida e ricca di cromatismi di Joseph La Shelle che, guarda caso, ha curato anche quella di un film come La lunga estate calda che, per alcuni versi,perlomeno inizialmente, mi è venuto spesso in mente mentre guardavo La caccia).

La caccia contiene in nuce diversi elementi (formali e tecnici) del successivo film di Penn con Warren Beatty e Faye Dunaway:
– un antieroe in fuga (Bubber) interpretato da una stella nascente del nuovo cinema americano (in questo caso, il pressoché esordiente Robert Redford);
– una società moralmente discutibile, assuefatta alla violenza, dalle propensioni istintuali;
– un erotismo latente che scorre neppure troppo sottotraccia, grazie a una rappresentazione a tratti esasperata dei corpi (soprattutto, quelli di Marlon Brando, macho, malinconico, con abiti così attillati da sembrare disegnato da Tom of Finland per una locandina alternativa del Querelle de Brest di Fassbinder, e Janice Rule che, per gran parte del film, sembra nuda);
– la rappresentazione degli Stati Uniti come una zona liminale in cui la legge, nel Bene e nel Male, è regolata arbitrariamente dagli uomini, in cui le istituzioni sono un mero accessorio;
– la rilettura di un genere cinematografico (in questo caso, prevale il western) per parlare di altro.

In questa azione di rilettura, Penn sembra quasi citare, non so se ammirato, se con sarcasmo o con puro spirito decostruttivista, la triade rebel yell che compone la filmografia di James Dean (i personaggi interpretati da Jimmy Dean sono parenti stretti di Bubber, giovani incompresi marchiati dalla società). In questo senso, La caccia sembra una versione sporca de Il gigante di George Stevens (vedi, soprattutto, l’ambientazione texana), un Gioventù bruciata che mostra un contesto sociale pienamente depravato, un La valle dell’Eden sotto acido (vedi la scena, soffocante e vertiginosa, in cui Brando esce traballante dalla stazione di polizia con il viso pesto, che -a me-ricorda quella del film di Elia Kazan in cui Dean si contorce in sala da pranzo, disperato).

Il momento culminante del film è rappresentato dall’uccisione a sangue freddo di Bubber a opera di uno dei suoi concittadini razzisti: Penn inquadra Redford e architetta la scena come se stesse ricostruendo quella dell’omicidio di Lee Harvey Oswald, il presunto assassino di JFK. Stessa meccanica (per esempio, Redford si fa largo tra la folla accompagnato da un rappresentante delle forze dell’ordine e, poi, cade colpito da colpi di pistola esattamente come Oswald), stessa spasmodica ricerca di un capro espiatorio da parte della folla/dell’opinione pubblica.
In questa sequenza, si esplicita pienamente l’intento politico e polemico del film di Penn: puntualmente, la società americana ha bisogno di un povero diavolo su cui scaricare le proprie tensioni. Comunismo (leggi: Vietnam), minoranze etniche, Lee Oswald… Per la cominità statunitense (rappresentata metaforicamente da quella della cittadina di Tart), sembra esserci sempre una scusa in grado di giustificare le proprie esplosioni di violenza incontrollate.

Tart è una specie di Sodoma che brucia sotto il peso dei suoi peccati nella scena spasmodica ed esacerbata dell’incendio dello sfasciacarrozze: le fiamme richiamano la créme di una città bigotta e marcia, ma non mietono (le giuste) vittime, non hanno un potere salvifico.
In una notte (della ragione) che inizia all’improvviso e che sembra non avere mai fine, Penn descrive un contesto caro a molti altri film dedicati successivamente al razzismo e all’intolleranza nel profondo Sud degli USA, a partire da (non a caso) La calda notte dell’Ispettore Tibbs di Norman Jewison (1967), fino a Mississippi Burning di Alan Parker (1988).

Forse anche per via dei tagli voluti dal produttore Sam Spiegel, che impose di eliminare dal film diverse parti, tra cui quelle dedicate alla descrizione della comunità afroamericana di Tart, la sceneggiatura de La caccia (un adattamento di un testo di Horton Foote a opera di Lillian Hellman) presenta didascalismi un po’ puerili (Robert Duvall/Edwyn è la quintessenza della vigliaccheria; nella scena della banca, per un attimo, la moglie di Edwyn sembra addirittura provata dal proprio ruolo di infedele-a-tutti-i-costi, come se chiedesse agli spettatori di comprenderla; ecc.), incertezze e buchi anche vistosi.
Per esempio, perché il ricco Val Rogers (E.G. Marshall) ha “regalato” a un recalcitrante Calder (Brando) il ruolo di sceriffo? Con che diritto e potere decisionale, poi?
Perché Calder ha ceduto la terra di famiglia? (ipotizzo che Rogers l’abbia comprata alla ricerca di petrolio e che, in cambio, abbia offerto a Calder la nomina a sceriffo, ma la cosa non viene spiegata)
Perché Bubber sembra disprezzare tanto apertamente i suoi genitori e, in particolare, sua madre?

Troppa, troppa carne al fuoco: nel complesso, il film è (letteralmente) squilibrato.

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