Recensione su The Butler - Un maggiordomo alla Casa Bianca

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Ambrogio, avverto un leggero languorino / 6 Gennaio 2014 in The Butler - Un maggiordomo alla Casa Bianca

Per la regia dell’afroamericano Lee Daniels, che nel 2009 aveva diretto l’intenso “Precious” (no, non quello di Gollum, quello di Gabourey Sidibe), “The Butler” è una buona (ma non ottima) pellicola, che rappresenta il percorso professionale e personale di un individuo correlandolo ai fatti che hanno segnato la storia della sua nazione, in un continuo ping pong tra la dimensione interiore e quella sociale.

Per spiegare più chiaramente il film penso che prima di farne una recensione vera e propria sia utile paragonarlo ad un’altra pellicola americana a 24 carati, uscita l’anno scorso e che (come probabilmente toccherà a “The Butler”) ha fatto incetta di nomination agli Oscar, ossia “Lincoln”.

Il punto in comune è evidente: entrambe sono pellicole storiche. Lo è più marcatamente l’opera di Spielberg, ovviamente, perché la sua dimensione storiografica costituisce il cuore del film stesso, mentre come già detto “The Butler” ha una grande simmetria con un singolo uomo comune, a contatto con il nucleo della politica (per via del suo lavoro) e allo stesso tempo estraneo ad esso data la sua funzione di mero servitore la cui opinione non deve mai trasparire.

Ma “The Butler” è, secondo me, migliore di “Lincoln”.

Il tallone d’Achille di “Lincoln”, per quanto sia una buona opera, è la sua imponenza pachidermica dal punto di vista storico-narrativo. Fatti, personaggi ed azioni sono mostrati con un dettaglio tale da essere accessibili solo ad un preparato pubblico americano; gli europei, per una mera questione di ignoranza scolastica e culturale, faticano a digerire un’opera così verbosa e minuziosa. I personaggi, magari anche importanti per il susseguirsi degli eventi, rischiano di diventare quindi un confuso e torbido miscuglio di visi senza una ben chiara connotazione su ognuno rispetto a chi sia e faccia cosa.

Per quanto riguarda “The Butler” è ovvio che la conoscenza della storia americana della seconda metà del Novecento è importante per la comprensione della pellicola, ma è altrettanto vero che ci si limita (aiutati dall’estensione temporale pluridecennale del film stesso) ai pochi e grandi cardini delle relative vicende storiche.
Per fare un esempio molto banale, quindi, è piuttosto improbabile che un europeo (o peggio, un italiano) conosca la composizione dei partiti repubblicano e democratico nel 1865, è più facile che sappia chi fossero le Pantere Nere.
O almeno spero.

Nonostante l’ennesimo sottotitolo italiano imbecille, che sembra il nome di una sit-com di Disney Channel con le risate registrate in sottofondo, “The Butler” è un buon film, che pecca sovente di eccessiva retorica (come molte pellicole americane che abbiano la politica come argomento principale) ma che riesce a dare quei due-tre affondi (non troppi, per la verità) alle coscienze che piacciono tanto al grande pubblico e all’Academy.
Sarà interessante vedere se l’onda lunga dell’amore per il Presidente Obama porterà ad un’incetta di Oscar, anche in base ovviamente a quali saranno le altre pellicole pluricandidate.
Non ti preoccupare, Leonardo, la statuetta non la vincerai neanche quest’anno.

Forest Whitaker torna finalmente ad un’opera degna di lui dopo alcune pellicole mediocri e/o ignoranti e riprende quel fil rouge iniziato con “L’ultimo re di Scozia” del 2007. Intenso e dignitoso, il suo personaggio è il punto d’incontro tra macro e micro, tra Stato e famiglia (le due principali aggregazioni di persone) e offre una buona prova attoriale, risultando probabilmente la cosa migliore della pellicola.

Molto imponente il resto del cast, con David Oyelowo (già presente in “Lincoln”), il rocker Lenny Kravitz, l’opinion leader Oprah Winfrey, Cuba Gooding Jr. (recente comparsata in “Machete Kills”) e Terrence Howard. Personaggi i loro talvolta eccessivamente stereotipati ma che danno una buona visione d’insieme, quindi su alcuni cliché penso si possa soprassedere.

Molto interessante il punto di vista sui vari presidenti americani, i cui ritratti sono talvolta riusciti (il viscido Nixon di John Cusack e il totemico Reagan di Alan Rickman) altre volte meno (lo stucchevole Kennedy di James Marsden, il caricaturale Johnson di Liev Schreiber), ma che rendono complessivamente un buon contributo al film. Attraverso loro lo spettatore può entrare in un mondo ovattato, una torre d’avorio dalla cui sommità si vigila sugli eventi che accadono in un grande Paese.

Non eccelso e probabilmente sarebbe potuto riuscire meglio, ma si è visto di molto peggio.

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