Sovrabbondanza di sollecitazioni / 18 Marzo 2016 in The Boy and the Beast

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Sei stelline e mezza)

Dopo Wolf Children, Hosoda continua a camminare nel solco del racconto di formazione intrecciato ad una rappresentazione che, attraverso la messinscena di un universo demoniaco parallelo abitato da creature antropomorfe dotate di poteri sovrannaturali, sfrutta con sufficiente senso di continuità narrativa l’immane patrimonio della tradizione folkloristica nipponica e orientale in genere.

Bakemono no ko è un lungometraggio ricchissimo di immagini e temi e, forse, questa sovrabbondanza di sollecitazioni rappresenta il suo limite e difetto maggiore.
Nonostante il minutaggio non indifferente, infatti, Hosoda parla di famiglia, crescita, impegno, confronto, scontro, dedicando ad ogni argomento uno sguardo veloce, profondamente incisivo solo a tratti. La sua bravura sta nello sfruttare gli stereotipi legati a questi ingredienti con grande mestiere, asciugando per quanto possibile il racconto da ulteriori orpelli.
Il film trasmette precisi messaggi positivi che, conditi con altisonante ma pur gradevole epica (il sacrificio estremo, il coraggio fuori misura, ecc.), esaltano la fiducia nel prossimo e l’importanza dell’appartenenza ad un nucleo famigliare e/o sociale solido.

Purtroppo, in questa operazione di razionalizzazione, si perde di vista, per esempio, la natura del lato oscuro insito negli esseri umani che, improvvisamente, sale alla ribalta, stupendo lo spettatore che, con piacere, si prepara ad assistere a quello che si prospetta essere un interessante scarto narrativo, ma che, a conti fatti, è la parte più debole del film.
A questo proposito, il conflitto tra Ren/Kyuuta e Ichirohiko erompe senza preavviso e si conclude in maniera abborracciata, a dispetto della grande spettacolarità delle immagini che lo accompagnano. Le dinamiche che sottendono la comparsa, lo sviluppo e l’espressione del lato oscuro delle creature umane sono scarsamente delineate e a poco vale giustificarne i meccanismi suggerendo che si è buoni o cattivi a seconda degli stimoli ricevuti in famiglia (Ichirohiko è stato amato ed ha ricevuto un’educazione saldissima, quindi la sua evoluzione “nera” non sembra avere giustificazione), anche se è decisamente interessante il parallelismo con il Moby Dick di Melville e la sfida contro sé stessi.

Nel complesso, anche dal punto di vista estetico, il film è godibile, ma risente di una sorta di eccessivo entusiasmo narrativo: troppa carne al fuoco deficita un racconto altrimenti decisamente compiuto.

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