Recensione su Take shelter

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23 Luglio 2012

Un film che rappresenta con potenzal’ansia e la paura introiettata nella malattia psichica, ma pervicacemente prodotta da un contesto che piano piano diventa intollerabile. Quello che però più di tutto mi ha colpito è la gestione della diversità/malattia nell’ambito sociale e famigliare. La “rovina” non è la malattia in sé, ma la malattia scoperta, pubblica. Il senso della paura che il film trasmette è che tutti possano capire il disagio crescente di Curtis e come possa essere gestita questa condizione: non c’è sorpresa, la malattia isola, la malattia allontana, la malattia esaspera. Eppure Curtis è un uomo consapevole, si serve di tutto ciò che può adoperare per arginare ciò che gli accade, ma tutto, tutto agisce contro di lui, non ultimo il sistema cieco e sordo di fronte al disagio. Il realismo è impietoso, tutta la vicenda è puntellata da un contraltare economico asfissiante, questo sì quasi prevedibile in ogni passaggio rispetto al compulsivo procedere della malattia, ma ugualmente pericoloso.
Il sistema di vita di Curtis implode nei suoi sogni e nella realtà lui deve trovarne uno sfogo emotivo che non può essere spiegato e razionalizzato, la sua è una presa d’atto che la razionalità per quanto rassicurante non è sufficiente. La malattia viaggia secondo codici che infrangono la routine della vita della famiglia, rompe la prevedibilità, distrugge il concetto di normalità che è “fare quello che tutti fanno”, “seguire perfettamente gli orari del lavoro”, “andare in chiesa”, “partecipare alle feste di quartiere”, “condividere il bar se si è maschi”. Se per noi è evidente lo stato allucinatorio (di cui ci accorgiamo comunque tardi per come è realisticamente ripreso), la parte della “delusione”, il secondo punto di Curtis verso la schizzofrenia, è un puzzle in via di costruzione che non collima con la chiosa dell’amico all’inizio del film sulla “giustezza” della sua vita. Cosa è la delusione? La vita, suppongo.
A questa traccia si lega il senso apocalittico delle visioni del protagonista con la natura che si rivolta contro l’uomo, che lo schiaccia. Il finale lascia sicuramente interdetti: la condivisione della malattia rende fragile anche la moglie forse, ma sembra difficile che la figlia, chiusa nella sua bolla infantile, possa davvero vedere la tempesta. La tempesta c’è? Dentro Curtis sicuramente.
Molto bella la fotografia, molto belle le riprese dal giardino della casa con questa orizzontalità crudele direi.

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