… come il cielo plumbeo della tempesta che incombe. Opprimente, perché la malattia psichica è sempre opprimente, limitante, schiacciante. Il film mette in estrema evidenza, ancora una volta, ciò che non abbiamo bisogno di sapere: che l’uomo medio occidentale è completamente impreparato e ignorante – nel senso letterale della parola – su tutto ciò che riguarda una delle realtà e dei meccanismi più incredibili che lo abitano: la psiche, con la sua natura, la sua fenomenologia, i suoi bisogni, i suoi modelli reattivi e adattivi, il suo linguaggio, e certamente la sua realtà, così straordinariamente intrecciata a questo altro grandioso (e altrettanto sconosciuto) sistema tutto umano che chiamiamo mente…
Ma queste sono considerazioni culturali, che una volta tanto dovrebbero smuovere le coscienze e avviare un revisionismo della psicologia in senso lato (visto che è stata “inventata” proprio dal mondo occidentale) e una equa presa di coscienza.
Tuttavia, tornando a questioni cinematografiche, il film regge. Regge l’intento di far “respirare” allo spettatore il vissuto di situazioni simili. Michael Shannon è bravo, con quel viso duro tanto quanto la sua mente che si irrigidisce, si intestardisce, si chiude, si incupisce, si adombra, oppressa da qualcosa che in parte non comprende e in parte non vuole e non osa accettare.
Ma se fin qui credo di aver più o meno condiviso quello che anche altri hanno riferito, c’è qualcosa sul quale ho tanta voglia di porre un dubbio: ma se ci fosse un’altra lettura? Una capace di rendere conto, di spiegare in coerenza quel finale in cui la moglie e la figlia di Curtis cominciano a “partecipare” del senso dell'”incombere”?
Insomma, mi sembra che il film includa certamente un omaggio all’Hitchcock de Gli Uccelli
– con tanto di “scene citazione”
– con questa soglia troppo infranta tra due realtà che dovrebbero restare distinte, dove il confine tra “normale” e “straordinario” – che sia della natura, o dell’uomo – non è più stabile
– con lo stesso aleggiare di qualcosa di misterioso, che rimane irrisolto, e proprio quando si credeva di averne trovato la spiegazione (ma sì, è la schizofrenia che incombe), come a sottolineare che in barba a facili riduzionismi [“Tu cosa pensi, eh? che sono matto?! – urla Curtis] la realtà fondamentalmente ci sfugge [continuamente], si sottrae alla decidibilità
– con quella solitudine in cui versano i personaggi, una solitudine decisamente sociale, a segnare un disagio non insito nella natura delle persone ma nei ruoli, in questa limitata stupida mediocre convenzione della “vita felice” [“ho voglia di qualcosa di normale”, dice Samantha, non capendo che in quel modo offre il fianco all’estremizzazione del conflitto che silenziosamente era già in atto in Curtis, a cui ella alla fine si riunisce evidentemente, “vedendo” la tempesta…]
– e bisognerebbe proseguire…
Tuttavia, concludendo: ottima interpretazione, sceneggiatura curata e coerente nelle battute e nelle scelte di molti dettagli, molto più di quanto traspaia dalla loro media “normalità” (la bambina sordomuta, il tema del rifugio sotterraneo, il tuono che repentino infrange…), ambientazioni significative e ben centrate rispetto al tema.
Prova interessante, Jeff, vado a ripescarmi Shotgun Stories che non ho visto e terrò d’occhio Mud
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