Recensione su Suspiria

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Mater Ciofecarum / 22 Gennaio 2019 in Suspiria

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

L’intuizione di Guadagnino si è rivelata giusta: ampliare la lista era quel che serviva.
Diamo il benvenuto a Mater Ciofecarum!
Non che nutrissimo chissà quali aspettative. Anzi, per una sorta di presentimento, già fiutavamo il fattaccio. Ma speravamo anche di poterci ricredere, almeno un minimo. Il trailer ci aveva comunque incuriosito. E invece no.
Senza dilungarci oltre, diremo subito cosa ci è piaciuto di questo film. Che è davvero poco: il montaggio alternato, efficace in qualche passaggio, e i costumi indossati durante le coreografie di ballo. Il resto, in tutta onestà, vada alle ortiche.
A cominciare dal trucco, di una goffaggine imbarazzante, e ancor più indifendibile se si considera quanto il make-up sia cruciale nel genere horror e quale attenzione esiga di solito. Eppure i picchi di sciatteria sono frequenti: tolta la scena di contorsionismo voodoo, l’unica davvero riuscita, nella maggior parte delle sequenze il ridicolo è in agguato, ottenendo di farci sghignazzare in sala insieme ad altri spettatori. Perché Tilda Swinton si metta a interpretare tre ruoli, in effetti, è un mistero. Provocazione o divertissement? Vezzo attoriale o narcisismo del regista? Non si capisce. L’abilità camaleontica di Tilda è cosa nota, ma un conto è truccarla da vecchia nobildonna, ad esempio in “Grand Budapest Hotel”, per pochi minuti, e poi farla morire; un altro è tenerla sullo schermo imbacuccata per oltre due ore. Fatto sta che, nei panni dell’anziano psicoanalista, l’attrice britannica ricorda fin troppo la fisionomia di Ruggero De Ceglie, e la situazione non migliora quando ad essere rappresentata è la marcescente Helena Markos, inglobata dentro una protesi grottesca, a metà tra Jabba the Hutt ed un budino ammuffito, con esiti tragicomici sulla serietà della scena. E cioè, manco a farlo apposta, nel momento di massimo climax che meno dovrebbe correre rischi.
Né si salva l’ambientazione. Il contesto storico, come sempre in Guadagnino, è del tutto artificioso, sovrimpresso a fatica pur di conferire alla storia un’aria falsamente impegnata. Pensiamo non solo alla Berlino degli anni Settanta, ma anche ai vari rimandi al Nazismo e alla Shoah: riferimenti i quali, tracciati con svogliatezza, non si amalgamano mai alla vicenda, e rasentano nei dialoghi la più patetica banalità. Dopo “Chiamami col tuo nome”, dove le sottolineature politiche a Craxi e al Pentapartito parevano fatte da un bambino che avesse origliato i discorsi del padre, Guadagnino si conferma essere un autore borghese che ama riempirsi la bocca di eventi storici di cui pare abbia letto un riassunto su qualche giornale scandalistico, magari prima di entrare dal dentista.
Anche il commento musicale manca della giusta oscurità, risolvendosi in una nenia eterea, dolciastra, e in definitiva trascurabile, che avrebbe meritato una maggiore ricercatezza compositiva. Thom Yorke sceglie di rimanere fedele a se stesso, e di portare avanti la sua consueta identità sonora – scelta di per sé lodevole. Peccato che, così facendo, scriva una melodia per lo più noiosa, totalmente fuori contesto.
Il problema principale, d’altronde, è che la storia sembra non sapere nemmeno a quale linguaggio appigliarsi. Mentre la virtù del “Suspiria” originale era quella di mettere in scena una fiaba nera, nella quale le ballerine somigliavano a fanciulle imprigionate dentro un castello gotico, con assoluta coerenza iconografica e narrativa, qui invece l’atmosfera viene sacrificata in nome di uno scopo apparentemente ideologico. Si finge di ritrarre una comune di streghe femministe, con le sue gerarchie e la sua lotta per la sopravvivenza; si sfiorano tematiche di rivalsa matriarcale, di emancipazione e libertà sessuale. Ma una tale ideologia svela comunque la sua inconsistenza, poiché il film non ha il coraggio di andare in fondo a nulla, lasciando in sospeso qualsiasi percorso e galleggiando in una zona intermedia priva di sostanza. Si parla di satanismo, si mostrano torture e rituali, ma siccome l’intrigo è già stato svelato a pochi minuti dall’inizio, non si può mai dire che aleggi il mistero; e nemmeno c’è orrore, se non nel sabba posticcio, quando la regia sembra confusamente passare di mano da Guadagnino a Robert Rodriguez. Allo stesso tempo, non si condensa lo spirito di una critica, né fuoriesce una metafora storica, in altre parole non c’è un briciolo di originalità, e ci si limita a spolverare, a ricalcare, a simulare: che sia Polanski o Fassbinder, non ha importanza. Espressione di questa tendenza, l’uso della fotografia, guidato da un principio meccanico d’imitazione, passivo e senz’anima.
Saremmo più clementi, forse, se il film si chiamasse diversamente.
Ed ecco l’errore più grande, segno dell’arroganza e della presuntuosità con cui è stata condotta l’operazione. Guadagnino avrebbe potuto omaggiare il capolavoro di Dario Argento rivendicando l’originalità delle propria riscrittura, e avrebbe potuto farlo cambiando anzitutto il titolo. Invece ha deciso di marcare il rapporto di uguaglianza, per lusinga o per vantaggio commerciale, salvo poi tradire lo spirito e il senso dell’opera originaria. Quale giustificazione ha, nella nuova versione, il rimando ai sospiri, ai rantoli, ai sussurri? Nessuna, se non un legame debolissimo, di totale irrilevanza narrativa. Eppure nella pellicola del ’77 il tessuto sonoro giocava un ruolo fondamentale. Si ricordino le frasi mangiate dalla pioggia, il rumore di scarpe utile a individuare misteriosi passaggi segreti (reinserito a casaccio da Guadagnino), o il respiro agonizzante di Helena Markos, capace di terrorizzare le giovani ballerine pur senza essere mai vista. Niente sopravvive in questo remake mascherato da rivisitazione d’autore.
Dunque ben venga l’allargamento della famiglia stregonesca, e ancora una volta, salutiamo la nuova sorella: Mater Ciofecarum!

1 commento

  1. mandelbrot / 15 Aprile 2019

    Premesso che non sono un grande estimatore di Guadagnino e in linea di massima condivido le tue considerazioni, trovo tuttavia che distaccarsi dall’originale sia stata comunque la scelta migliore. Secondo me poi l’accenno agli avvenimenti cruenti della Germania, sia nazista che democratica, vale come il riferimento al cimitero indiano in Shining. Il collegamento è lasciato allo spettatore. Se ci pensi, anche Shining non approfondisce e non spiega nulla, ma molto del suo fascino dipende proprio da questo suo non finito.

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