Recensione su Suspiria

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M / 24 Maggio 2019 in Suspiria

Lo stesso Dario Argento ha definito il “Suspiria” di Luca Guadagnino non un remake ma un’altra «versione dei fatti» rispetto all’originale. La fiaba gotica e iperespressionista del regista romano è a tutti gli effetti un ufo la cui orbita rimane unica, non intercettabile e non replicabile. Piuttosto, l’operazione di Guadagnino è equiparabile ad un nuovo allestimento teatrale di un testo pre-esistente o, per rimanere nell’ambito cinematografico, ad un’idea di ricorsività e di riadattamento dello stesso soggetto che appartiene più che altri al cinema orientale (senza dimenticare, però, le infinite varianti, guardacaso tutte orrifiche, del mito di Faust, di Dorian Gray, di Dracula o di Frankenstein). Per esempio, quante differenti versioni esistono della storia dei quarantasette ronin, di Musashi Miyamoto, di Yuki no-jo o, per spostarci dal Giappone alla Cina, della leggenda degli amanti farfalla? Si può in fondo sostenere che, nella storia del cinema, il dittico bifronte di Suspiria è veramente comparabile solamente alle due versioni della pratica dell’Ubasute raccontate da Keisuke Kinoshita, prima, e da Shōhei Imamura, poi, rispettivamente ne “La leggenda di Narayama” (1958) e “La ballata di Narayama” (1983).
Se Argento, come Kinoshita, adotta una messinscena profondamente anti-naturalistica, dominata dai contrasti tra colori puri e da una macchina da presa lanciata allo scoperta di uno spazio-set teatrale, lungo vettori totalmente astratti da qualunque forma di realtà, Guadagnino, come Imamura, rinuncia a quest’economia di segni, ricorre ad una palette cromatica desaturata, trasforma l’ambiente astratto e onirico dell’originale in un paesaggio dell’orrore concreto e ipermaterico. I rossi, i gialli e i blu accesi e brillanti del “Suspiria” originale si compattano intorno ai grigio ardesia e ai marroni di Balthus. L’accademia di Danza dove si svolge la maggior parte dell’azione non è più una sorta di castello nero, uno spazio del possibile che sfugge ad ogni consequenzialità logica e rinsalda il connubio mitologico di paura e desiderio, ma una prigione di specchi claustrofobica e inquietante, dove la storia, letteralmente, si riflette in uno spazio oscuro che sembra volerla negare e riscrivere.
Il “Suspiria” di Argento, di fatto, è sussunto all’interno di un meccanismo che sfrutta lo spunto originale come una sorta di canovaccio su cui poi costruire una nuova storia capace di prendere differenti svolte e inedite direzioni, di prevedere ulteriori intrecci fino a ribaltarne l’assunto. Col risultato, quasi, di dimenticarsi del punto di partenza. Così, l’arrivo di Susie Bannion (allora interpretata da Jessica Harper, oggi dalla splendida fulva dagli occhi di ghiaccio Dakota Johnson) in un’Accademia di Danza tedesca (là era Friburgo, qui è Berlino) che si rivela una conventicola di streghe guidate dalla figura misteriosa e temibile della Mater Suspiriorum (una delle “Tre madri” della mitologia elaborata da Thomas De Quincey in “Suspiria de profundis”) è il punto di partenza di due film che proseguono lungo traiettorie ben diverse. Tanto controllato nelle sue rigide geometrie Art Noveau, tanto perfettamente pianificato appare il girotondo gotico dell’originale, quanto centrifuga e irrequieta, frammentaria e sbilanciata (il primo montaggio pare durasse ben quattro ore), ritmata dal meraviglioso fraseggio alla Arcalli del montatore Walter Fasano è la versione di Guadagnino. In particolare, però, sono due gli aspetti che distanziano il “Suspiria” di Guadagnino dal “Suspiria” di Argento: da una parte, il rapporto più diretto che instaura con la memoria e con la Storia; dall’altra l’esito del percorso che coinvolge la protagonista.
La Susie di Dakota Johnson non solo scopre l’orrore quale snodo inevitabile del passaggio definitivo all’età adulta, dove i traumi individuali (è cresciuta in una famiglia mennonita, rigida ed inflessibile, bigotta e violenta) si saldano alle cicatrici della Storia. Non solo sperimenta, attraverso il tramite in qualche modo medianico della danza, una sorta di possessione che ne modifica la percezione del mondo. È anche, e soprattutto, protagonista di un viaggio alla scoperta di un potere straordinario e nascosto dentro di sé, capace di ribaltare ogni gerarchia (di pensiero?) e trasformarla da figura senza storia a nuovo leader (la Mater Suspiriorum) di una sorta di società dentro la società. Ovviamente, più che un aggancio ad un movimento neo-femminista come il #MeToo, il regista vede, attraverso Susie, una sorta di aggiornamento, ancorché cupo, orrifico e oscuro, dei caratteri di molte eroine fassbinderiane. Dice Guadagnino: ”La sua capacità [di Fassbinder] di osservare e rappresentare le donne, sempre a livello tridimensionale, ha influenzato molto il mio cinema e questo film in modo particolare. Fassbinder è stato un grande maestro della crudeltà. Ha creato personaggi femminili incredibili insieme alle sue magnifiche interpreti”.
Il dato più interessante del percorso di Susie Bannion, però, sono gli interrogativi che esso suscita: il Male della Storia è destinato a riverberare per sempre all’interno dei singoli? Oppure è l’uomo che coltiva dentro di sé una sorta di Male ancestrale, pre-storico, destinato a riproporsi ciclicamente attraverso rituali di violenza che segnano, per l’appunto, l’incedere delle diverse epoche, qui simboleggiato dal bagno di sangue attraverso cui si consuma la “presa di potere” da parte di Susie? Il film sembra muoversi, ambiguamente, tra questi due estremi, mettendo in scena una sorta di “rituale in un tempo trasfigurato” dove la violenza del mondo si scolpisce direttamente sulla carne e sul corpo.
E riprendendo il tema storico, Argento esiliava la Storia (e i suoi mali) nel fuoricampo, trasformandola in una sorta di cupo presagio di morte. Guadagnino, invece, sceglie una prospettiva complementare e opposta. Tutto il suo film, infatti, si propone come una sorta di lungo inseguimento ad una memoria storica intermittente, immaginario spettrale (non è un caso che lo psichiatra Josef Klemperer – interpretato da una splendida Tilda Swinton en travesti e accreditata con lo pseudonimo di Lutz Ebersdorf – venga irretito dall’apparizione fantasmatica della moglie morta in campo di concentramento) che pure si ripercuote sempre, inevitabilmente, su ogni presente.
In fondo, la presenza tangibile, materiale, della Storia si evidenzia con la scelta di ambientare il film nel 1977. Non solo come malizioso riferimento alla data di uscita film di Argento, ma anche perché l’anno del cosiddetto Autunno Tedesco, marchiato nel sangue dagli attentati terroristici della RAF. Senza contare che la prima frase che si sente pronunciare è l’invocazione di una folla di manifestanti che vorrebbero la liberazione del terrorista Andreas Baader, poi morto in circostanze misteriose nel medesimo ’77.
A trasformare l’horror in una sorta di esperienza politica non è tanto, però, questo riferimento diretto, iperconnotato, a fatti ed eventi storici. Piuttosto, è il modo con cui la storia infetta, letteralmente, personaggi e spettatori come una sorta di fantasia, di allucinazione collettiva. Scritta – ancora una volta – nella carne e nel sangue. E la memoria, il mezzo di conoscenza della storia, è il vero strumento attraverso cui è possibile, per la congrega di streghe, perpetuare il dominio. Prescelta per entrare all’interno dell’esclusivo e nefando enclave di maliarde incantatrici, Susie viene infatti educata attraverso la condivisione di sogni che, da una parte, attingono dalle sue memorie private (le torture subite per mano della madre) e, dall’altra, derivano dalla memoria “collettiva” del coven. Non solo: le streghe, per liberarsi della minaccia costituita dal dottor Klemperer, aprono il velo dell’illusione producendo lo spettro della moglie scomparsa anni addietro (e, in verità, brutalmente assassinata dalle SS in un campo di sterminio). Uno stratagemma che, ancora una volta, trae sostegno dalla doppia articolazione di memoria privata e memoria storica. E non si dimentichi che, una volta divenuta Mater Sospiriorum, Susie cancellerà la memoria “pericolosa” del dottor Klemperer.
Nella sequenza del sabba – la più rischiosa e contestata del film – Guadagnino costruisce una sorta di cerimoniale performativo dove i corpi si muovono in uno stato di transe prolungata mentre si magnifica un rituale di sangue che riscrive le gerarchie del potere. L’incanto ipnotico del sabba perpetua la propria virulenza politica: le streghe di Suspiria utilizzano come armi della propria autodeterminazione politica esattamente le medesime istanze che determinarono per secoli la loro stessa discriminazione. La loro esclusione dalla Storia. E rispondono con un rito macabro, trasgressivo ed espiatorio (la raccapricciante danza di sangue del sabba) alla cerimonia purificatrice del rogo alla quale per secoli furono sottoposte, dopo indicibili torture.

Il film ha molto polarizzato la critica, ma, posto che ha le sue imperfezioni, credo che la maggioranza dei commenti negativi siano legati a due fattori: 1) ci si aspettava un film alla Dario Argento; 2) ci si aspettava un horror. Che il film di Guadagnino sia, come già detto, ben diverso dall’originale è una fortuna (l’inutilità dei remake pedissequi mi lascia sempre perplesso). Sul secondo punto ci sarebbe più da riflettere, ma il punto nodale, a mio parere, è che non si tratti di un horror: semmai di un film fantastico (nel senso di appartenente al genere fantastico): con una sua mistica e una sua politica.
C’è però un elemento fondamentale che smarca il “Suspiria” di Guadagnino dall’immaginario fantastico tradizionale, proiettandolo in un nuovo scenario. Di per sé, il fantastico rende il confine tra reale e sovrannaturale del tutto indecidibile, impossibilitando qualunque attribuzione del principio di realtà agli eventi più arcani, agghiaccianti e paurosi. Guadagnino invece, riflettendo sull’orrore della Storia, non ripristina l’ordine razionale né sbiadisce i confini della rappresentazione. La focalizzazione non è instabile (sogno? realtà? allucinazione?) come da tradizione fantastica: nessuno, vedendo il film, può mettere in dubbio lo statuto di quanto si vede sullo schermo. Lo spettatore non è più chiamato ad interpretare quanto ha davanti ma invitato ad una partecipazione che, attraverso la continua sollecitazione sensoriale (in un crescendo che può diventare anche respingente e repulsivo), costruisca una comunione emotiva e percettiva con il testo.
L’operazione può legittimamente insospettire o irritare, deliziare o sconcertare, essere amata o odiata, ma fa macchia nel cinema contemporaneo proprio per come invita ciascuno a posizionarsi, riflettendo sulla natura di quanto rappresentato sullo schermo. Mettendo in gioco la propria conoscenza e le proprie opinioni sulla realtà e sul mondo.

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