Adolescenza torbida: Susanna la strega / 14 Aprile 2015 in Adolescenza torbida

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Il film appartiene al discutibile “periodo messicano” di Buñuel: girato in fretta e furia, con pochi soldi a disposizione (e si vede).
“Gli vengono commissionati soggetti che non ha scelto (di solito, di genere: melodrammi, commedie, ranchere e canterine), spesso lavora con attori fuori parte, imposti dalla produzione, sempre con mezzi economici e tecnici minimi. Non supera mai i ventiquattro giorni di lavorazione, lavorando spesso con lo stesso gruppo di tecnici, creando quasi una factory messicana” (G.Valerio, Invito al cinema di Buñuel, ed. Mursia, 1999).
Non a caso, la protagonista della pellicola, evidentemente troppo matura per interpretare la giovane Susana, era la moglie del produttore.
Il film è un cosiddetto ranchero: con questo genere cinematografico espressamente messicano Susana condivide il tono estremamente melodrammatico e l’ambientazione, una hacienda prospera in cui la vita scorre serenamente, finché, in una notte di tempesta, arriva Susana e l’aura idilliaca della fattoria si infrange miseramente.

Buñuel non si esime dal rappresentare ed additare esplicitamente Susana come una strega che, pur invocando Dio, commette il Male.
Quando riesce ad evadere, la ragazza è in riformatorio da oltre due anni, ma la platea non saprà mai perché: nel corso del film di lei si apprendono la furbizia, la spregiudicatezza e l’avidità e si riesce ad immaginare vagamente per quali motivi potrebbe essere finita in galera (corruzione? Falso? Truffa?).
Susana ha dei disturbi mentali che emergono da un evidente bisogno di mentire quasi patologico: Buñuel insinua enorme curiosità nello spettatore, senza soddisfarlo, esattamente come fa Susana con i suoi bramosi pretendenti. Li stuzzica fino all’esaurimento fisico: in effetti, il più delle volte, si concede loro, ma non prima di averli coinvolti in un frenetico parossismo fatto di “ora no, non qui, no, ti prego”. Susana sembra risvegliare in ogni maschio indicibili bestialità, scatena sensuale violenza, come se emanasse afrore magico, Circe e Morgana insieme.

Il cineasta spagnolo non si produce, qui, in un film particolarmente memorabile, benché non manchino alcuni spunti interessanti.
In primis, Buñuel si impegna nella rappresentazione quasi beffarda della famiglia borghese e perbenista in cui vige un rispetto dei padri di stampo tradizionale, oserei dire biblico.
In saecundis, sfrutta ampiamente il tema (ricorrente, nella sua filmografia) della religione, mettendola in ridicolo.
Puntualmente, chi invoca la protezione e l’aiuto divino si prepara a compiere atti discutibili. A detta di Buñuel, quindi, la virtù non è affatto immune dalla bestialità e ne è prova l’espressione diabolica e compiaciuta della pia matrona che frusta Susana.

Mi ha colpito in particolare il fatto che Susana venga restituita ai suoi carcerieri solo quando Juanito, il ranchero allontanato dall’hacienda dal geloso Don Guadalupe, decide finalmente di vendicarsi di Susana: ella viene punita non perché colpevole di essere una cattiva persona, ma in virtù di un tradimento legato ad un’offesa ed è l’unica a pagare per tutto quel che è accaduto nella fattoria.
Eppure, tutti, dal retto padre allo smidollato figlio, hanno compiuto atti deprecabili: hanno mentito, sedotto, occultato, alzato le mani. Evidentemente, è nella loro natura essere intimamente corrotti: Susana è stato “solo” il diabolico pretesto che ne ha permesso l’espressione. Ciascuno di essi viene riabilitato senza colpo ferire, perché il Male si è allontanato: parabola della confessione cattolica?

Nota: il titolo italiano del film, vanamente pruriginoso, non c’entra nulla con la trama, né -tantomeno- con lo spirito della pellicola.
“SusanNa”, non è inutile ricordarlo, significa “giglio” ed è sinonimo di purezza: la protagonista ha perso da tempo la propria integrità fisica e morale, per cui il suo nome è in completa antitesi con il suo modo di agire.

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