8 Aprile 2013 in Su Re

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Bizzarramente, finisce che il colpevole non è il maggiordomo. No, è che raccontare la storia mboh, senso non ha, la sapete più di me. Anche perché non ho mai fatto catechismo, e tipo un sacco di personaggi del presepio e dintorni devo ancora capire chi sia. Comunque, siamo in pesante Sardegna, dove tutto è così fottutamente sardo, e privo di connotazioni temporali, e ci capita davanti una Passione del Cristo. Questo povero Cristo è il piùssardo traissardi, ha una fisicità truce e imponente e sofferente. Intorno al Cristo, su che palle, succedono le solite cose da 2000 anni, ma qui i Vangeli vengono sbocconcellati a balzi back and forward, che non ho apprezzato. Ed è comunque facile da immaginare come tutto la particolarità e quindi la forza, del film e del Gesù, stia nelle immagini, nelle sardità (sardezza? Sardegnità, sardinità e così via) dei volti, dei paesaggi, delle erte scoscese e brulle dove le donne piangono, l’erba (e i Cristi) muoiono e le nuvole camminano veloci, brontolando. Questa natura, che da forma al tempio, al tribunale, al sepolcro, a tutto, fa da contesto per dei personaggi più brutti dei brutti, una sorta di tribunale dell’inquisizione in Giovanna d’Arco, una corte dei miracoli, in cui Giuda è il più mingherlino e la croce per tenere il ladrone grasso va fatta doppia. L’esperimento di applicare un immaginario figurativo così connotato alla storia più raccontata di tutte (non che sia un bene eh, io a Gesù preferisco David Gnomo, ad esempio) è riuscito ma solo in quanto tale, nel senso che si spinge poco più in là. Il tutto ovviamente in sardo, strettissimo e sottotitolato. Buttiamoci anche un “ayò!” e c’è tutto.

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